di Cesare Cavalleri, Studi Cattolici, novembre 2018
Quando il Cielo ci fa segno, di Vittorio Messori (Mondadori, Milano 2018, pp. 144, euro 17) è un libro di umiltà e di devozione. Umiltà perché il grande scrittore ci rende partecipi di tanti «piccoli misteri quotidiani» accadutigli di persona, che dischiudono spiragli verso l’alto; di devozione, perché le pagine vibrano di fede vissuta senza ostentazione ma in profondità e candore.
«Bisogna astenersi (e io me ne astengo con cura)», scrive Messori, «dal pensare immediatamente al “piano celeste”, ma occorre anche guardarsi – l’ho più volte ricordato – dall’archiviare subito episodi simili nello scaffale dei “casi” e delle “combinazioni” fortuite. Termini che nel vocabolario cristiano non devono, non possono esistere».
Dunque, se una lettrice di Messori, dopo essersi raccomandata a Padre Pio, riceve nel suo paese della Val di Susa una lettera dello scrittore col timbro postale dello stesso giorno in cui è partita da Desenzano del Garda, a oltre 300 chilometri di distanza, che cosa bisogna pensare? Messori lo chiese tempo dopo a un Cappuccino di Casalpusterlengo, che era stato confratello e anche aiutante di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. «Ma è normale», rispose il frate. «Naturalmente, solo per lui. Gliel’ho visto fare tante volte. Riceveva ogni giorno un mare di lettere, le faceva scorrere tra le mani senza aprirle e ne metteva alcune da parte, di cui coglieva – non so come – il contenuto. Erano quelle più urgenti, quelle dei sofferenti nel cuore e nello spirito, alle quali sentiva di dover dare subito almeno un cenno di vicinanza solidale e la promessa di un ricordo nella preghiera. Gliele aprivo, le leggeva, e per ciascuna scriveva una rapida risposta, ovviamente a mano. Queste lettere “urgenti” non le affidava alle poste, ma agli angeli: arrivavano subito a destinazione. Quel che lei mi dice non mi sorprende: anche da altri ho saputo che non ha abbandonato questo suo sistema neppure nel Cielo in cui si trova».
«Ma, padre, che significava, in concreto, affidarle agli angeli?», incalzò Messori. «Ogni mattina uno di noi imbucava tutta la corrispondenza del convento. Che cosa avvenisse di quelle lettere privilegiate, non lo sappiamo. Sta di fatto che, a quanto mi risulta, le poste non hanno mai sospettato che alcune buste finissero direttamente nella borsa del postino, ovunque fosse, lo stesso giorno in cui erano state consegnate all’ufficio di San Giovanni Rotondo. Il bello è, come ci hanno detto in molti, che quelle lettere erano timbrate con la data del giorno. Com’è successo alla sua amica».
Mi sono dilungato su questo episodio perché Padre Pio è un santo troppo simpatico, taumaturgo generoso, sempre disponibile. La moglie di Vittorio, Rosanna, lo invocò quando il marito, che non sapeva di questa sua devozione, stava soffocando per un boccone che gli era andato per traverso. Vittorio si unì mentalmente all’invocazione e riprese a respirare. Un piccolo incidente, certo, che tuttavia a volte è letale. I genitori di Messori non erano praticanti, anzi, erano decisamente anticlericali, e Vittorio non ha smesso di pregare per loro. Quando la madre era in fin di vita in ospedale, nella notte una suora si recò dal cappellano per chiedergli di amministrare i sacramenti alla malata. Il cappellano eseguì, e subito dopo la signora Emma si spense. Non si seppe mai chi fosse quella suora, certamente non era di quell’ospedale. Vittorio ne rimane commosso.
E che dire della telefonata in piena notte che Messori ricevette a un anno esatto della morte dello zio Aldo, fratello della mamma? «Mi disse, con tono affannato, solo pochissime parole che ho ancora nelle orecchie, come se le avessi udite ieri: “Vittorio! Vittorio! Sono Aldo! Sono Aldo! Sto bene! Sto bene!». All’epoca, Messori era ancora lontano dalla fede e, nonostante quel segno,
passarono alcuni anni prima della conversione.
Nel libro, un posto privilegiato non poteva mancare per il beato Francesco Faà di Bruno, al quale Messori ha dedicato nel 1990 una biografia che non esito a dichiarare entusiasmante.
Militare, grande matematico, sacerdote, il marchese piemontese Faà di Bruno (1825-1888) si dedicò alla formazione e all’assistenza delle domestiche, categoria a rischio nell’Ottocento (e non solo), fondando anche una congregazione femminile. Il beato Pio IX lo ebbe in grande considerazione, e san Giovanni Paolo II lo beatificò il 25 settembre 1988, nel centenario della morte.
Il 22 settembre 2017 il Politecnico di Torino organizzò un convegno dal titolo: «Francesco Faà di Bruno matematico», e Messori fu invitato a tenere la relazione conclusiva.
Vittorio era incerto se accettare, sia per i troppi impegni, sia per le condizioni di salute. Di quell’invito non fece parola con nessuno neppure con la moglie. Le reticenze si dissolsero il 12 giugno quando Rosy, la colf di casa Messori, domandò: «Avete qualcosa a che fare con un prete di Torino, uno che si chiama Faà di Bruno?». E raccontò che in sogno aveva visto quel sacerdote che la incaricava di convincerlo a partecipare al convegno, descrivendole anche la lapide in latino che Messori aveva fatto collocare accanto alla tomba del Beato. Naturalmente, il santo delle colf aveva scelto una colf per convincere il “Capo”, come Rosy chiama Messori. Ancora una volta: coincidenze? Allucinazioni? Ognuno pensi ciò che vuole, ma la spiegazione più razionale è quella soprannaturale, più che mai inconsueta in questa nostra epoca postcristiana. Giustamente, dunque, Vittorio Messori apre e chiude il suo libro con questa frase del compianto cardinale Carlo Caffarra: «È d’urgenza drammatica che la Chiesa ponga fine al suo silenzio circa il Soprannaturale».