VITTORIO MESSORI

VITTORIO MESSORI: «E ADESSO SCOMMETTO SULLA MORTE PERCHÉ SO IN CHI HO CREDUTO»

Corriere della Sera, 2 marzo 2021 di Stefano Lorenzetto

Lasciando la direzione del Foglio, Giuliano Ferrara spiegò che «a 63 anni bisogna imparare a morire». Vittorio Messori si è portato avanti con i compiti da quando ne aveva 41 ed è prossimo a compierne 80 in questo 2021. «Problemi al cuore. Ma va bene così. Sono crollato proprio qua», si lascia sfuggire elusivo, e non vuole aggiungere una sola parola. «Qua» è il suo pensatoio dentro l’abbazia benedettina di Maguzzano, affacciata dal IX secolo sul lago di Garda, in cui visse Merlin Cocai, alias Teofilo Folengo. Lo scrittore è certo che le due stanzette, intasate da 15.000 libri, gli furono concesse in comodato d’uso grazie all’intercessione celeste di don Giovanni Calabria, un prete ritenuto matto perché confidava solo nella divina provvidenza, e infatti fu sottoposto a quattro sedute di elettroshock. Invece era santo, come sancì Giovanni Paolo II nel 1999. Messori anticipò il precetto ferrariano con Scommessa sulla morte, uscito nel 1982 sull’onda del successo (1 milione di copie, 26 traduzioni) di Ipotesi su Gesù, scritto dopo la conversione al cattolicesimo. «Ora che si avvicina il momento di passare all’altra vita, ho deciso di donare questa biblioteca e quella di casa a un’associazione di teologia. Ho già dettato l’iscrizione per la lapide sulla tomba».

Il tema non mi sembra di attualità.

«Lo è sempre. Nome, cognome, data di nascita, data di morte. E “Scio cui credidi”, so in chi ho creduto, come scrive Paolo nella Seconda lettera a Timoteo».

Mi confidò che vorrebbe essere sepolto in questo complesso monastico.

«Sì, unico laico fra i religiosi dell’Opera Don Calabria. Due semplici pietre in un angolino, una per me e l’altra per mia moglie con la frase “Cor ad cor loquitur”, il cuore parla al cuore, motto cardinalizio di san John Henry Newman. Ma i parenti di Rosanna ci vorrebbero nella cappella di famiglia, nel cimitero di Treviglio».

Vabbé, passiamo ad altro.

«E perché? “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti”. Salmo 90. La vita eterna è l’unico tema. La Chiesa oggi è una succursale dell’Onu, non ne parla. Questa è riduzione al mondo. Ma Vangelo significa buona notizia, in greco. Gesù non si occupò di politica, nella sua predicazione non condannò neppure la schiavitù. Venne a schiuderci le porte del paradiso. Prima lo sheol per gli ebrei era il regno dei morti, del buio». Quel giorno chi le verrà incontro per primo? Un angelo? San Pietro? Dio? «Non posso prevederlo. So che bisogna dimenticare la Divina Commedia».

L’aldilà non è la parodia dell’aldiquà.

«Per la Chiesa è paradiso, purgatorio o inferno. Preghiamo perché ai nostri cari sia accorciata la permanenza nel secondo, ma nell’aldilà non esiste il tempo».

E se lei finisse all’inferno?

«I santi c’insegnano che ci va solo chi lo vuole, chi rinnega coscientemente Dio. Hans Urs von Balthasar disse, o gli fecero dire, che “l’inferno esiste, ma è vuoto”. Sarà. Tuttavia non intendo diventare il primo inquilino che lo inaugura».

Boccaccio confessò: «Spero che la morte mi colga mentre sono intento a leggere o a scrivere o, se a Dio piacerà, mentre prego e piango». Lei cosa spera?

«Parlava così per farsi perdonare il Decameron. Io prego perché la morte mi trovi vivo. E perché mi sia risparmiato un decesso improvviso: vorrei congedarmi con il conforto dei sacramenti».

Ha un animale domestico?

«Un tempo ero gattolico praticante. Ho avuto Micetto e Micetta. Il maschio tornava a casa ferito, ma farlo castrare mi sembrava una crudeltà. Alla fine ho inventato Baratto e Malvagio, gatti immaginari. Aiutano a evitare i litigi fra coniugi. Diamo a loro la colpa di tutto».

Paolo VI consolò un bimbo che piangeva la morte del suo cane, dicendogli che l’avrebbe rivisto in paradiso. È così?

«Non è un dogma. Ma credo che tutto ciò che abbiamo amato sarà salvato».

Questa sì che è fede.

«Ero l’allievo prediletto di Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e Luigi Firpo, la trimurti del laicismo. Non avevo alcuna intenzione di diventare cristiano, meno che mai cattolico. Ma cascai dentro una sorta di buco bianco».

Come e quando?

«Nell’estate del 1200, pardon, che lapsus linguae! Del 1964, la più calda del secolo scorso. I miei genitori, entrambi mangiapreti, erano in vacanza. Stavo controllando una citazione nel Vangelo, che non avevo mai aperto in vita mia. Non so che mi accadde. Cercai di resistere, ma non vi fu niente da fare. Quando scoprì la conversione, mia madre voleva farmi visitare da uno psichiatra. Galante Garrone mi diseredò moralmente sulla prima pagina della Stampa. Se ora lei mi puntasse una pistola alla tempia e m’ingiungesse di affermare che il Vangelo è una bufala, le direi: spari pure».

Dovette cambiare radicalmente vita.

«Da universitario mi mantenevo facendo il centralinista di notte alla Stipel, la compagnia telefonica di Torino, con altri giovanotti aitanti. Lo sport preferito delle signore sole era di chiamarci, invitandoci ad andarle a trovare di giorno. Divenuto credente, stracciai l’agendina con i loro numeri e gli indirizzi. Quella fu l’unica volta che scoppiai a piangere».

Nel 1971 le nozze, che durarono poco.

«Con la sorella del mio miglior amico, oggi diventata testimone di Geova. Mi circuì mentre ero ricoverato in ospedale, in stato di costrizione psicologica, come testimoniò davanti alla Sacra Rota».

Ne seguì una lunga causa di nullità.

«Conobbi Rosanna Brichetti alla Pro Civitate Christiana di Assisi. Ci sposammo quando lei aveva 57 anni e io 55. Per 30 abbiamo vissuto come fratello e sorella, in case separate. Il cardinale Joseph Ratzinger convinse papa Wojtyla a riaprire il fascicolo sull’unica persona che aveva scritto saggi con entrambi. Fui minacciato di morte dopo che pubblicai Rapporto sulla fede con l’allora prefetto dell’ex Sant’Uffizio: dovetti nascondermi in un convento dei barnabiti. Fino a quel momento la Congregazione per la dottrina della fede si era sempre espressa con due sole formule: “licet” o “non licet”».

Lei compirà 80 anni il 16 aprile, quando Benedetto XVI ne festeggerà 94.

«Sì, abbiamo in comune il dies natalis di santa Bernadette Soubirous, il giorno della sua nascita al cielo. Per anni ho trascorso le mie vacanze estive a Lourdes. Il rettore del santuario voleva che mi ci trasferissi come capo dell’ufficio stampa».

A Medjugorje c’è mai stato?

«Dopo le prime apparizioni. Lavoravo per Jesus. La polizia mi fece spogliare, dovetti togliermi persino le mutande».

E che conclusioni ne trasse?

«Il codice di diritto canonico stabilisce che solo i vescovi locali possano giudicare questi eventi. Il Vaticano non si è mai espresso né su Lourdes né su Medjugorje. Il presule di Mostar era scettico, ostile. Ma Gesù insegna che dai frutti si riconosce l’albero. Ebbene il paradosso è che l’albero di Medjugorje lascerà magari a desiderare, ma i frutti sono eccellenti: i pellegrini tornano da là tutti migliori».

Saprebbe dirmi per quale motivo la Madonna appare ovunque e Gesù mai?

«Gesù è anche Dio. Maria è solo donna, fa parte dell’umanità. È il trait d’union fra la terra e il cielo».

Incontra ancora il Papa emerito?

«Non oserei mai disturbarlo. Un giorno mi telefonò il suo segretario Georg Gänswein: “Sua Santità la rivedrebbe volentieri, ma lei dovrà dimenticarsi di essere un giornalista”. Peccato, perché fece commenti sulla situazione della Chiesa che erano da prima pagina. Sulla scrivania teneva solo due giornali, il Corriere della Sera e la Süddeutsche Zeitung».

Che cosa pensa di quei cattolici convinti che il «vero» papa sia ancora lui?

«Non li seguo. Osservo solo che ha voluto restare vicino a Pietro».

Sente la mancanza dei figli?

«A me piacciono i bambini degli altri. Non avevo la vocazione alla paternità».

Sua moglie è laureata in sociologia con una tesi sul femminismo, ha lavorato al Censis, ha girato l’Italia a raccogliere pareri sulla legge Basaglia. Non sembrerebbe una messoriana.

«È laureata anche in giurisprudenza e in teologia. Di quella tesi ancora si vergogna. Fu una vittima del ’68. L’ho guarita».

Ma perché passa per reazionario?

«Lo ignoro, ho sempre cercato di essere solo cattolico. Mi considero un uomo del Concilio Vaticano II. Non ho mai partecipato a una messa in latino. Anzi, sarei stato a disagio nella Chiesa di prima».

Che rapporti ha con l’Opus Dei? «Di amicizia, come con Comunione e liberazione. Ma non ne faccio parte».

Il Vangelo non parla di peccati mortali e veniali. Lei crede a questa distinzione?

«Mah, insomma… Dopo la morte ci attende un tribunale. E i giudici irrogano le pene secondo la gravità delle colpe».

Se il sesso serve solo a procreare, quale peccato commette un marito il quale abbia già avuto figli e vi ricorra fuori dal matrimonio qualora la moglie si rifiuti di avere rapporti coniugali?

«Non ho una risposta. La lascio ai confessori. Guardi, quando iniziai a fare l’apologeta, decisi di astenermi da tre attività: dichiarare per quale squadra tifo, parlare di politica, trattare di morale. Sono argomenti che dividono. La Chiesa fa la moralista. Ma la morale cristiana senza essere cristiani appare disumana».

Non si è mai occupato di temi etici.

«È vero. E mi sono attirato diffidenze, se non rimproveri, per questa assenza. Che vuole mai, è la sindrome del convertito. Ciò che m’interessa è la fede, la possibilità stessa di credere, di scommettere sulla verità del Vangelo. Il resto è solo una conseguenza. Etica, società, lavoro, politica… Tutto necessario ma assurdo, se prima non si saggia l’esistenza e la resistenza del chiodo che deve reggere ogni cosa. E quel chiodo è Gesù».