VITTORIO MESSORI

Quarant’anni di Tuttolibri

di Vittorio Messori, La Stampa, 31 ottobre 2015 

Correva l’autunno del 1975. Non era affatto, quello, un annus Domini. Non passava settimana senza un sequestro di persona. L’inflazione era a due cifre, chi poteva andava in gita a Chiasso : ma con valigie di denaro. Tutti scioperavano tutti i giorni, o quasi: prendere un treno, un aereo, un tram era un azzardo. L’impotenza dello Stato era tale da non riuscire a battere moneta e le banche supplivano  stampando “assegnini“ da 50 e 100 lire. Per le 200 lire, c’erano i gettoni telefonici. E poi, naturalmente, il terrorismo politico, che mieteva vittime e creava panico in chiunque fosse un possibile bersaglio.

Ero in via Marenco, allora, giovane cronista di Stampa Sera e vidi come la mortifera ideologia pseudo-rivoluzionaria fosse penetrata anche all’interno del “giornale del padrone“, come lo chiamavano. Gli stipendi, da noi, erano buoni e godevamo di indubbi  privilegi.  Talvolta mi azzardavo a chiedere a qualche collega – che nelle ossessive assemblee di redazione alzava il pugno chiuso gridando: <<Lotta dura senza paura!>> -a chiedere perché stesse a prendere gli abbondanti <<soldi sporchi della Fiat>>.  Alla provocazione (così chiamavano ogni domanda scomoda),  l’interpellata ti guardava sospettoso: << Ma davvero non capisci che il nemico va combattuto dall’interno, da vecchie talpe, come ci insegna Marx?>> Un giorno, uno dei  gruppetti di quei “guerriglieri“ benestanti incendiò un reparto della Mirafiori: sul tetto de La Stampa, da dove si poteva vedere salire  la colonna di fumo, un gruppo di colleghi ammirava compiaciuto. Qualcuno, portò dal bar una bottiglia di spumante. I Soviet -come erano chiamati, tra timore e ironia, gli intoccabili “comitati “ di redazione – assumevano promuovevano, decidevano al posto dell’editore intimorito.

Ma intimorito non era il direttore, Arrigo Levi. Un paio di anni prima Alberto Ronchey aveva ceduto alla tensione ed era tornato nella più rassicurante Roma. Levi aveva alle spalle  prestigiose esperienze internazionali ma aveva anche un passato di volontario nella brigata israeliana del Negev. Non era tipo da spaventarsi se, sul ballatoio del suo alloggio, vegliavano giorno e notte poliziotti col mitra. Uomo cordiale e aperto (con lui, ebreo militante, io, cattolico esplicito, ho sempre avuto ottimi  rapporti) ma, all’occorrenza, doverosamente  duro. Nei  suoi soggiorni americani aveva apprezzato la Book Review, il supplemento culturale del New York Times e aveva deciso, nominato direttore, di allargare la gabbia della pur gloriosa “terza pagina“ italiana.

Fu così che, nel primo autunno di quel 1975, un fattorino mi avvisò che il direttore mi voleva nel suo studio. Alla imprevista proposta di far parte della piccola squadra che doveva creare il nuovo settimanale culturale opposi, lo confesso, qualche resistenza. Avevo alle spalle un liceo classico , una laurea in scienze politiche, un’esperienza di lavoro in case editrici di buona tradizione. Eppure,  ero grato alla provvidenza di aver realizzato il sogno giovanile di fare il giornalista e, per ancor maggior privilegio, in cronaca. Lì allontanavo ogni giorno il pericolo di diventare il consueto  intellettuale, teorico di una società inesistente: aggirandomi in ogni meandro della metropoli industriale, constatavo che tra i libri e la vita il gap era grande.

Comunque, accettai. E non me pentii: di quegli anni non ho che buoni ricordi, umani e professionali. C’erano Alberto Sinigaglia (onnipresente deus ex machina), Mario Varca e, come redattore capo, Mario Bonini che fu presto sostituito da Giorgio Calcagno. Segretaria Lisa Gersoni, una ebrea di origine lettoni,  poliglotta. Vennero poi Sandro Rosa , Osvaldo Guerrieri, Luciano Genta , Nico Orengo, Lorenzo Mondo ed altri. Ebbene, non ricordo , tra noi, non dico litigi  ma neppure dispute culturali  troppo accese, che mettessero a rischio l’amicizia. Per un tacito accordo, niente politica . A conferma, però del ben diverso clima attorno, dovemmo affrontare subito lo sciopero dei tipografi del quotidiano che volevano non so che indennità per il nuovo settimanale. Era il  consueto “no“ previo di un sindacalismo ideologico e masochista, ben più dannoso che utile ai lavoratori. Così, fummo costretti a comporre e stampare il giornale (ancora in piombo) in una tipografia nell’hinterland  milanese. Crebbero le spese e il disagio. Il settimanale , comunque , uscì sempre puntuale ed accurato.

Ma il terrore di una politica fattasi religione bisognosa di sacrifici umani  irruppe  tragicamente anche nelle nostre tranquille salette al secondo piano di via Marenco. Arrigo Levi aveva delegato il vicedirettore, Carlo Casalegno, a seguire il nostro lavoro. Due anni di collaborazione amichevole e fruttuosa, interrotta, nel novembre del 1977, dalle pistole delle Brigate Rosse: il volto devastato da quattro proiettili, 13 giorni di terribile agonia, per quell’uomo tanto pacifico quanto coraggioso.

Alla fine del ’79 -avendo pubblicato il mio primo libro, “Ipotesi su Gesù “, che ebbe una diffusine imprevista ed anomale –  cedetti  all’invito  di fondare a Milano il mensile di Famiglia cristiana. Me ne andai con rammarico da una Torino e da un giornale che, non ho remore  a dirlo, amavo. Da redattore, non avevo rimorsi professionali. Nei quattro anni iniziali, avevo contribuito io  pure a creare un giornale pacato in tempi di grida, equilibrato in tempi di fanatismi, colto in tempi di ignoranti da 18 politico, tollerante in tempi di ideologie feroci.  Quel tabloide stampato su carta  economica, la stessa del quotidiano,  e venduto  a 200 lire (150 La Stampa) non ha, forse, segnato la storia ma, nella cronaca di quei cupi anni di piombo, ha testimoniato che si  poteva continuare a fare un po’ di cultura anche in tempi di barbarie.