VITTORIO MESSORI

Interpretazione e manipolazione

giugno 1993. Il caso Cristo :: Jesus, di Vittorio Messori

Sul numero 8/’93 de Il Regno-attualità Vittorio Fusco, ordinario di Nuovo Testamento nella Facoltà teologica dell’Italia meridionale, a Napoli, ha proposto un ampio saggio critico come Note di lettura del volume di Vittorio Messori, Patì sotto Ponzio Pilato?, SEI, Torino 1992. Il titolo polemico che la rivista bolognese ha dato al pezzo, ” Le trombe del concordismo”, indica già che nel testo i rilievi critici non vengono risparmiati.

Il nodo del dibattito è, secondo Fusco, il concetto stesso di storicità dei testi della Scrittura, e in particolare del Nuovo Testamento. Per Fusco, Messori propone una nozione di storicità talora rigida, fino a pretendere che ogni parola del testo biblico sia verificabile nella realtà dei fatti. Ciò comporterebbe l’esclusione, nella stesura del testo, di ogni attività interpretativa dello scrittore sacro, e della stessa comunità di fede, con la identificazione forzata, spesso riproposta, altra interpretazione e manipolazione.

Una critica netta, quella di Fusco, al volume di Messori, che in questa puntata de il caso Cristo su Jesus ha voluto rispondere pubblicamente ad alcune (non tutte, per mancanza di spazio) delle obiezioni di fondo avanzata dal biblista. Siamo lieti di essere la sede di un dibattito vivo su cose che stanno a cuore a tutti i credenti.

Le sono grato dell’attenzione che ha voluto dedicare al mio Patì sotto Ponzio Pilato? Come ben sa, il libro è nato sulle pagine di questo “il caso Cristo” che procede, mese per mese, dall’ormai lontano 1987. Giudico dunque doveroso verso i lettori di Jesus sottoporre anche ad essi, diretti interessati, un dibattito che ha già coinvolto altri critici, ma in cui Lei ha voluto entrare con forza polemica per ben cinque pagine.

Proprio il giorno prima di prendere conoscenza delle sue “Note di lettura”, scorrevo il numero appena giuntomi di Aceprensa di Madrid, una tra le più serie ed autorevoli agenzie di stampa spagnole (7 aprile 1993), interamente dedicato proprio a quel mio Patì dove un recensore esperto, dopo una fitta analisi, non solo lodava in toto -bontà sua…- il libro, ma osservava: “L’opera, già di per sé sorprendente, richiama l’attenzione anche perché -malgrado il carattere divulgativo- ha sido acogida (è stata accolta) con respeto por los especialistas”.

Ecco invece subito un especialista -Lei, caro padre-che no tiene respeto. Ecco uno come Lei che, pur concedendo che “nel libro non mancano cose interessanti e riflessioni intelligenti e parecchie pagine si potrebbero leggere con utilità”, giudica però subito, ” tutto il discorso scorretto e fuorviante”.

A quale “esperto” credere? A quello di Madrid o a quello di Napoli? Mi lasci allora subito ribadire, con fraterna sincerità, che anche questa volta, come già nelle numerose occasioni (pubblico libri , ahimè, da quasi vent’anni) in cui i recensori si dividevano tra il plauso e la demolizione, non mi sono né esaltato per le lodi né demoralizzato per gli attacchi. Certo: rispetto, attenzione, esame attento (e, quando doveroso, umile accoglimento) delle critiche. Ma, al contempo, consapevolezza che elogi e stroncature, come ogni espressione umana, vanno accolti con un pizzico, più che mai doveroso per un cristiano, di distacco: prenderli sempre sul serio, mai sul tragico. È la stessa regola di autoironia, del resto, che mi sforzo di seguire sempre nel guardare a me stesso e a quanto dico e scrivo.

E, questo, perché sono consapevole che, ad ogni generazione, occupazione principale di ogni “esperto” é dimostrare quanto abbiamo sbagliato gli “esperti” precedenti; quando non cercare di farci dimenticare quanto, in precedenza, abbia sbagliato gli stesso… Ciò vale per ogni “scienza”, compresa quella biblica. Poiché Lei, ovviamente, conosce la storia della sua disciplina -che è l’esegesi del Nuovo Testamento- sa di certo meglio di me che anche soltanto trenta o quaranta anni fa molti suoi confratelli nel sacerdozio e colleghi nell’insegnamento avrebbero duramente stroncato -anch’essi alla pari di Lei, con postulati “scientifici”- chi avesse impostato come Lei fa ora, adeguandosi al trend per ora egemone, i rapporti tra Vangeli e storia.

Ma la ruota gira e continuerà a girare: ciò che ieri, in queste materie, era da credere nelle università cattoliche (perché presentato dai professori come “sicuro”, attestato, “inconfutabile”) ora sembra a Lei, e a buona parte dei Suoi colleghi, intollerabilmente anacronistico. Ma siamo davvero sicuri che proprio ciò che Lei dà per ormai scontato, e sulla cui certezza condanna senza quasi appello, non sarà guardato con ironico compatimento da una prossima generazione di biblisti? È già successo tante volte. Succederà ancora.

Questa era anche la quieta, serena, e pure rigorosamente motivata convinzione che sentii ribadire da quello straordinario biblista (che pure fino all’ultimo volle essere prete) che fu l’abbé Jean Carmignac. Era del tutto alieno dalle polemiche, sapendo come da esse spesso non giunga fatto luce ma maggior tenebra. Eppure, me lo ricordo bene il vecchio, mite ma roccioso abbé quando mi diceva, con con il suo tono tranquillo, sinceramente preoccupato, senza il sospetto alcuno d’ironia o di sfida: “Je regrette beaucoup pour bien de mes confréres”, mi dispiace molto per tanti miei colleghi, ma, in un futuro prossimo, la ricerca biblica dovrà seguire strade completamente diverse da quelle divenute intoccabili, senza neppur più esame critico, per alcune generazioni di esegeti.

Se cito Carmignac, reverendo, e perché trovo ingiusta l’infastidita sbrigatività con cui vorrebbe sbarazzarsi di una vita di ricerca accanita come quella del defunto fondatore e direttore della Revue de Qumran. Lei scrive, infatti: “Ecco dunque Messori riprendere da Carmignac come oro colato non soltanto l’ipotesi della redazione dei Vangeli in ebraico, ma soprattutto quelle sulle datazioni che il compianto studioso aveva avuto modo di accennare in maniera sommaria e, in verità, completamente gratuita “. E’ un giudizio lapidario che lascio per intero alla sua responsabilità: chi conosce l’opera di Carmignac non può non stupire di quel suo “completamente gratuita”. Quanto al sottoscritto, capisco bene che -come avviene fatalmente in ogni schema polemico- Lei abbia necessità di attribuirmi a priori il ruolo di naif, di ingenuo, un po’ dilettante e un po’ fazioso; uno che, per sorreggere le sue tesi settarie (mosso da chissà quali inconfessabili interessi) accetterebbe, “come oro colato”, “ipotesi gratuite”. D’accordo, d’accordo: non Le contesterò la necessità dialettica di presentarmi così. Augurandole, però, che i Suoi lettori non siano anche i miei. Perché, se lo sono, può darsi che ricordino le parole con le quali in Patì sotto Ponzio Pilato? concludo proprio il capitolo dedicato a Carmignac e agli studiosi così duramente osteggiati perché motivano, con nuove scoperte, il sospetto che non ci sia nulla di più “moderno”, oggi, che riscoprire e l'”antico”. Dico, dunque, tirando un provvisorio bilancio dei fatti (non delle opinioni!) esposti in quel capitolo: “Ma, forse, proprio la vivacità delle reazioni consiglia di esaminare con tranquilla attenzione le ragioni e i torti: ce ne sono da entrambe le parti, come può constatare chi legga i libri e gli articoli che difendono i rispettivi, contrapposti schieramenti. L’atteggiamento più sensato sembra ancora quello indicato da Carmignac: dar tempo al tempo, lasciare che nuove generazione di biblisti, senza posizioni acquisite da difendere, vengano alla ribalta…-(p.302). Giudichi dunque chi legge se questo atteggiamento, di prudenza e di attesa, sia davvero l’ingoiare acriticamente (cercare di far ingoiare al lettore) ipotesi sospette “come oro colato”.

Questo comportamento tra il ridicolo e il truffaldino o, almeno, il fazioso che lei mi attribuisce quasi ovunque, darebbe prova di sé anche nel dare notizia degli sconcertanti contenuti di quella grotta 7 di Qumran la cui citazione sembra scatenare crisi incontrollate presso certi specialisti “conformisti”.

Ribadisco quest’ultimo aggettivo che lei mi rimprovera ma che -come qui come nelle pagine del libro- non ha nulla di negativo, ma tutto di oggettivo, giusta l’etimologia, da “conformarsi”, e il significato, che riprendo dal classico Zingarelli: “Conformista è chi accetta gli usi, i comportamenti, le opinioni prevalenti in un determinato gruppo sociale e periodo storico”. Ora: poiché qui si parla di datazione dei testi del Nuovo Testamento, è un fatto indiscutibile che in questo “periodo storico” e nel gruppo “sociale” dei biblisti di ogni confessione “l’opinione prevalente” è ancora in contrasto con quanto sostenuto da coloro che giudicano fondata l’ipotesi della presenza di brani di un Vangelo è di lettere paoline in quella grotta sul Mar Morto.

Il mistero di Qumran 

Devo darle atto che Lei ha altro stile di quello di quell’autorevole membro della Pontificia Commissione Biblica che aveva già riempito di contumelie Carmignac sino alla morte ed oltre (“getterò qualche palata di terra sulla tomba di simili ipotesi che ben meritano questo omaggio”. cfr. il mio Inchiesta sul cristianesimo, Oscar Mondadori, 1993 e pagina 132) e che poi definì il collega e confratello O’Callaghan, cattedratico di papirogia nonché decano del Pontificio Istituto Biblico, con alle spalle oltre 200 pubblicazioni scientifiche, “un povero gesuita spagnolo”, uno che sosterrebbe “assurdità ridicole”.

Lei, professore, preferisce lo stile più morbido dell’ironia con cui parla dei miei “entusiasmi” per ipotesi come quella di O’Callaghan; del sorriso con cui scrive: “Immancabili e collocati nell’ultimo capitolo, come botto finale o colpo di grazia, gli ormai famosi papiri della settima grotta di Qumran”. “Provvidenziali ritrovamenti”, li definisce, beffardo, attribuendomi, al solito, il comportamento che dovrebbe necessariamente avere uno che corrisponde all’identikit che mi ha previamente attribuito: “E’ questo equivoco che porta il nostro a caricare tali ipotesi di tanta drammaticità, aggrappandosi ad esse come un naufrago a un’ancora di salvezza. Di qui, forse, la sommarietà con cui vengono presentate e date per acquisite”.

Quanto alla “sommarietà” della presentazione, mi permetto osservare che questa Sua definizione sembra in contrasto con le 16 pagine -fitte di tutti i dati e le notizie raccolte sia in biblioteca che attraverso colloqui con i protagonisti – che stanno sotto il titolo del capitolo: “Qumran, grotta 7:venti lettere per un mistero”.

Venendo alla “sommarietà” con cui le avrei “date per acquisite”, Le ricordo che tutte quelle pagine sono al condizionale, a cominciare dalla prima: “si tratta di qualcosa che potrebbe gettare una luce straordinariamente nuova (se pur in quel modo che mai esclude le ombre e che sembra voluto da Dio stesso) su quella storicità dei Vangeli che se cerchiamo di saggiare” (p.353). Per arrivare le ultime parole: “per ora, comunque -a meno di altre scoperte imprevedibili e inconfutabili (…)-, dobbiamo rassegnarci a non avere certezze assolute, a rimanere nella dimensione del probabile, per quanto fondato (… ). La possibilità di negare e di accettare fa parte della dinamica del Vangelo, è legge costitutiva della fede cristiana stessa. Un’ “ambiguità” che trova una delle conferme più straordinarie attorno a questi piccoli, lacerati pezzi di papiro, attorno a queste lettere in parte quasi illeggibili, a questa misteriosa scritta sull’anfora. “Abbastanza luce per chi vuole credere, abbastanza tenebra per chi non vuole credere “… ” (p.377).

Ipotesi o certezze? 

Davvero, anche qui, Lei giudica che questo sia il linguaggio di un Tartarino arrogante e fazioso che, ignorando la complessità dei problemi, “con sommarietà” giudica e manda? O quella di un “naufrago” che cerca di aggrapparsi a “un ancora di salvezza”, quasi per lui fosse in gioco, qui, non la ricerca della verità e quella sola, ma un qualche interesse privato, professionale?

Del resto, in contraddizione col Suo stesso schema di un antagonista grossolano (la mia sarebbe una “maniera rozza e massimalistica di intendere la storicità dei Vangeli”), Lei cita alcune almeno delle pagine in cui ribadisco lo sforzo di stare lontano da ogni pretesa di avere sempre comunque ragione (i toni dei tanti che, nella Chiesa degli ultimi decenni, a destra come a sinistra, si sono auto nominati “profeti” mi sembrano al contempo ridicoli e pericolosi).

Lei scrive: “per capire l’impostazione generale, vale la pena di soffermarsi su un esempio concreto, magari quello con cui si apre il libro”. Si tratta della morte di Giuda. Ebbene, proprio qui metto subito, e più volte, le mani avanti, con parole che mi sembrano ben lontane da quelle “concordismo tristemente noto” di cui sarei anacronistico seguace seguace, alle cui “trombe”, anzi, darei fiato, come da titolo del Suo articolo. Scrivo, dunque: “un team di credenti, composto da un valdese, un battista, un cattolico (…), non cerca neppure di indagare sulla storicità di tutto questo (le due relazioni, cioè, di Matteo e in atti, della fine di Giuda) ma lo dice in un midrash, un racconto edificante della tradizione rabbinica, senza pretese di adesione ai fatti (…). Se anche così fosse, non per questo la fede nella verità sostanziale dei Vangeli sarebbe messa in discussione. Il messaggio, certo, lo spirito, ma la lettera del Vangelo vivificano” (p.24).

Lei, ironicamente, si dice convinto che ci sono “ipotesi su Gesù” sostenute da studiosi cristiani (il suo riferimento, in quel momento, è a Rudolf Bultmann)” che turbano tanto i suoi (di Messori) sonni “. Ebbene sì, professore: i se mi sottometto, da tanti anni, ad una fatica improba per cercare di capire e di far capire in temi tanto ardui per chi, come me, dovuto iniziare dal nulla o, peggio, dalle “deformazioni” di una scuola razionalista; se invece di esercitare qualche dote di scrittura, redigendo con assai meno fatica e forse con maggiore profitto e gratificazione personale libri più “facili”; se, per dedicarmi a questi studi con il tempo, il silenzio, la solitudine che esigono, ogni giorno rifiuto le più allettanti e proficue proposte; se questo, con l’aiuto di Dio, sinora mi è stato dato di fare e intendo continuare a fare, e proprio perché mi sta a cuore la fede. La mia e quella dei fratelli.

Fede e intelligenza 

Sento come un dovere, del quale dovrò rispondere, il continuare a indagare il più a fondo possibile le “ragioni della speranza”, affrontando ostilità, silenzi sprezzanti quando non minacciosi, non di rado umiliazioni, sia dal mondo “laico” che da quello ” cristiano “. Ebbene sì, glielo confermo e lei ne sorrida pure: il mio sonno è spesso turbato di fronte alla crisi della fede che oggi sembra tutti insidiarci; mi inquieto e ne soffro, e per questo, ogni giorno, spesso con fatica, cerco, come posso, di intelligere ut credame dicredere ut inelligam.

Per amore di completezza devo aggiungere che le fatiche e le amarezze cui accennavo (e se vi accenno è perché vi sono costretto) sono state, almeno sino ad ora, compensate con perfino eccessiva abbondanza dalla solidarietà, dall’affetto, dalla gratitudine di tanti lettori. Stando ai dati dell’editore -ogni copia porta il contrassegno della Società Autori ed Editori, le cifre sono dunque controllabili e pubbliche- nei sette mesi dalla sua dalla sua uscita, nell’ottobre scorso,sino a questo inizio di maggio in cui scrivo, Patì sotto Ponzio Pilato? È stato diffuso in 65.000 copie. Sollecitando io stesso il dialogo con i lettori ho ricevuto sinora, provocate da queste pagine, un migliaio di lettere. Eppure, in nessuna di esse -e non poche giungevano da lettori qualificati, preti e vescovi- ho trovato conferma di quanto Lei afferma con sicurezza: “Il discorso si presenta estremamente confuso: si combatte furiosamente, ma di tutta questa battaglia non sono chiare né i presupposti, né gli interlocutori, né gli obiettivi, né i metodi”. Un gran caos, insomma, un insigne pasticcio quelle mie povere 368 pagine.

Non metto certo indubbio che a Lei così sia parso; magari è davvero così: non escludo -tanto poco sono convinto di vederci chiaro io solo- malgrado non abbia lesinato tempo, fatica, riflessione. Debbo però dire che, se sto alle relazioni, nessuno tra quelle decine di migliaia di acquirenti (e lettori) mi ha comunicato la sua protesta per avere investito denaro e tempo su un libro dove nulla è chiaro e tutto è confuso.

Se, all’inizio del Suo pezzo, Lei denuncia a quello che Le sembra il mio caos, al termine si dice certo che ciò che ottengono simili pagine è “accrescere proprio quella confusione che si vorrebbe rimuovere”. Anche qui sarà così. Ma, anche qui, coloro che mi hanno comunicato le impressioni di lettura possono talvolta aver avanzato obiezioni critiche su punti particolari, ma proprio nessuno mi ha detto di essersi trovato alla fine con le idee più confuse. Anzi, come testimonia il mio archivio (che è a sua disposizione) la totalità dei corrispondenti afferma che da quelle pagine ha tratto maggiore chiarezza, che ha trovato risposte non reperite altrove a domande che si poneva. A chi credere, dunque: al “professore” o alla “gente”? Allo “specialista” o al fratello sconosciuto per il quale anche “Cristo è morto” e che -come aggiunge modo inquietante l’apostolo- rischia la rovina causa di certa scienza di certi sapienti? (1 Cor e 8, 11).

Datazioni incerte 

Ma torniamo ai “sonni turbati”. Ciascuno ha, per simili turbe, i suoi motivi. Per qualche biblista che non vuole essere disturbato nei presupposti insegnatigli e sui quali ha costruito la sua carriera “scientifica”, tra quei motivi ci sono oggi, certamente, quei piccoli, enigmatici frammenti della grotta 7 di Qumran. E qui, mi permetta, per una volta sono io che temo di constatare qualcosa di simile a quella “altissima concentrazione di confusioni” che Lei, senza complimenti, mi addebita. Leggo, in effetti, nel Suo articolo: “per quanto riguarda il frammento di Qumran 7Q5, identificato da O’Callaghan con Mc 6, 52s., benché il centro primario d’interesse di Messori sia la datazione, proprio di quest’ultima nulla è detto; non viene spiegato al lettore che la data del 50 d.C. è stata proposta in base al tipo di grafia, caratteristica dell’epoca tra il 50 a. C. e il 50 d. C. ma che, come ricorda lo stesso O’Callaghan, si trova usata sino alla fine del secolo. A proposito poi dell’altro frammento, 7Q4, identificato con 1 T m 3, 16, non solo non viene segnalato che secondo O’Callaghan il papiro in questione andrebbe datato tra fine I secolo e inizio II secolo, ma si rasenta il ridicolo rischiando -troppa grazia, Sant’Antonio!- di farlo risalire addirittura a un’epoca anteriore a tutte le altre lettere di Paolo: “dopo l’anno 50”.

Ma, professore, davanti a simili affermazioni non resta, trasecolati, che ricordarLe l’ovvietà che lei, inspiegabilmente, sembra dimenticare: l’eccezionalità dei reperti di Qumran sta nel fatto che è possibile stabilire come del tutto sicura una data oltre la quale non possono essere stati composti. Quella data è il 68 d. C. (secondo alcuni il 66), perché in quell’anno la Decima Legio Fretensis che si dirigeva verso Gerusalemme per l’assedio giunse alla regione del Mar Morto e disperse o massacrò i monaci di Qumran. I quali (e stupisce di dover ricordare simili cose, mille volte dette) prima della fine avevano sigillato nelle anfore e nascosto nelle grotte il testi della loro biblioteca.

Ma allora, di grazia, come sarebbe possibile datare “tra fine I secolo e inizio II secolo” un frammento proveniente da quel deposito? Non sta qui, nella data necessariamente anteriore al 70- anzi al 68 forse al 66- lo sbalordimento, l’esitazione, quasi il tremore di cui parla O’Callaghan nei resoconti sulle riviste scientifiche del ’72 e poi ’73 in cui si decise uscire allo scoperto con le ragioni della sua ipotesi? Non dico nulla della datazione? Ma essa sta, con tutta evidenza, in quel termine massimo che non può in alcun modo essere superato e che è quanto in quella sede mi interessa.

Quanto al “ridicolo” cui mi esporrei scrivendo alla pagina 365 (così Lei scrive, in realtà 366) di Patì: “Non ammetteranno mai -non possono farlo, pena l’abbandono di ciò che hanno insegnato per tutta la vita- che già dopo l’anno 50 esisteva, nel testo attuale, quella chiamiamo Prima lettera a Timoteo”, mi sembra scorretto che Lei non dica che non si tratta di parole mie, bensì di una citazione testuale, tra virgolette, di Harald Riesenfeld, Suo collega in quanto docente di Nuovo Testamento all’Università di Uppsala. Se del caso, dunque, dovrà “ridicolizzare” non il povero cronista sottoscritto, ma quel prestigioso professore scandinavo.

E -sempre del caso-“ridicolizzerà” poi un altro Suo collega, Carsten Thiede, docente dell’Università di Wuppertal, dopo esserlo stato a Oxford, Londra, Ginevra. Ma sì, quel professor Thiede che è giunto alla certezza che O’Callaghan ha ragione dopo essere stato tra i pochi ad esaminare i frammenti di papiro direttamente, a Gerusalemme, invece di basarsi su foto. In un libro posteriore a quello che Lei cita, quello specialista afferma: “Dopo tre successivi soggiorni di studio al Rockefeller Museum, ho dovuto ammettere che c’erano solidissime ragioni a sostegno dell’identificazione del frammento maggiore, il 7Q5, relativo a Marco 6,52-53. Poi ho preso in considerazione frammento 7Q4 (1 Tm 3, 16) giungendo la stessa conclusione” (Gesù, storia o leggenda? 1992, EDB, Bologna, pag.99).

La ricerca continua 

Per venire in modo specifico al “ridicolo” di quella Prima a Timoteo (con tanto di beffardo “troppa grazia, Sant’Antonio!”) ecco, a pagina 97 dello stesso libro, altre parole di Thiede: “Questo significa che la lettera è stata scritta in una data così a ridosso della vita stessa di Paolo da poterla ritenere una sua lettera autentica, contrariamente a quanto pensa la maggior parte degli studiosi. E dal momento che già prima della loro identificazione, entrambi frammenti erano già stati datati, in base allo stile di scrittura, a un periodo certamente non posteriore al 50 d.C., la data degli originali da cui provengono risulta assolutamente straordinaria”. Se la veda Lei, dunque, con i Suoi colleghi.

Mi accordo di aver già superato i limiti di spazio della “puntata”. Restano così fuori -e me ne rammarico- altre osservazioni su temi non irrilevanti: come essere scambiato quasi per un mascalzone (“insinuazione ispirate da una di a una dietrologia sessantottesca di bassa lega…”) per aver ricordato la dipendenza stretta di Bultmann -“un filosofo, non un esegeta”, per dirla col suo ex-amico Karl Barth -da quell’Heidegger che, nel 1945, fu allontanato per “atteggiamento filo nazista” dall’università tedesca e vi potè rientrare, ma in posizione defilata, solo 7 anni dopo. Un discorso interessante, da cui apparirebbe quanto sia singolare la sua accusa di avere voluto “denigrare” questo Bultmann e che, secondo Lei, “verosimilmente Messori non ha mai letto”: a non Le sembra questa, piuttosto, una “insinuazione” grave, un “metodo per screditare” l’interlocutore?

Resta fuori, purtroppo, anche il discorso forse più importante, perché quello davvero di fondo. Un discorso che nasce da una semplice domanda, da credente a credente, da laico a sacerdote. Perché cercare di distruggere e non piuttosto di aiutare il povero asino sottoscritto, costretto a scendere in pista, faticando e rischiando grosso, sia perché tanti cavalli di razza che pur la cristianità ancora nelle sue scuderie sembra disdegnare di esibirsi se non per i loro colleghi? Da sei anni, ormai, queste ” puntate ” appaiono. Perché attendere l’autore al varco per “svergognarlo”, quasi fosse un pericoloso dilettante, quando quasi 400 pagine si erano già fatte libro e non farsi vivi prima -come ci si aspetterebbe da un fratello nella fede, con un servizio ufficiale di insegnamento della Chiesa- per avvertirlo, per consigliarlo se davvero sbagliava così gravemente?

È una domanda, padre. Solo una domanda. Ma conti -sinceramente- sul mio affetto e la mia disponibilità ad ascoltare e ad imparare. Ne ho gran bisogno.

© Jesus