3 agosto 2004 :: Corriere della Sera, di Vittorio Messori
La scaletta decisa dal giornale era senza appello: per me, il Purgatorio, l’ultimo canto, il trentatreesimo. Compito arduo per chi la Commedia l’ha dovuta, sì, tutta decifrare, verso per verso, impiegandoci un anno intero per ogni cantica. Ma, questo, in un remoto liceo classico. D’accordo, prima del Sessantotto, quando non occorreva solo studiare ma anche non dimenticare, visto che alla maturità si portava tutto intero il poema. Ma l’università prima, e la vita poi, hanno allontanato da quei versi il vecchio liceale, i cui i radi ritorni al Poema hanno obbedito all’attrazione naturale per gli estremi: l’inferno, soprattutto; e qualcosa del paradiso.
Non il purgatorio che, nella memoria, era di un grigio lattiginoso, senza tragici bagliori di fiamme né estasi di slanci mistici. Insomma, non barerò: lungi dal ricorrere alle competenze, ho dovuto rimettermi sotto, confrontando edizioni e commenti. Ma, forse, meglio così. Costrettovi dalla scelta della redazione, mi sono riavvicinato a questo canto finale del Purgatorio con la curiosità e la freschezza della prima volta. Avendo subito sorprese. Innanzitutto, il fatto che, occupandomi soprattutto di storia, alcuni dei versi li avevo sfiorati, senza saperlo, a proposito di certe piaggerie fasciste nei riguardi del Duce. Che c’entra Mussolini? C’entra, c’entra. Lo vedremo.
Ho riscoperto, comunque, che l’immagine del grigiore purgatoriale è ingiusta, almeno per quest’ultima parte della cantica. In effetti, a partire dal canto XXVII, Dante si inoltra nell’Eden. Un Paradiso Terrestre degno del nome, dove le fronde della foresta sono accarezzate da un brezza lieve, dove risuonano concerti di uccelli, dove scorrono ruscelli tra rive fiorite. Un Paradiso dove la bella, gentile – e misteriosa – Matelda («una donna soletta che si gìa / cantando e scegliendo fior da fiore»), simboleggia la felicità terrena; e dove, soprattutto, appare Beatrice, la cui sola presenza è garanzia di luce, di amore sovrumano, di redenzione attraverso la bellezza.
Una Beatrice che, seppure al suo modo soave, sa rampognare, ammonire, profetizzare. Per suo ordine, Matelda guida Dante e Stazio (il poeta latino simbolo di un paganesimo già aperto alla Rivelazione cristiana) a bere le acque dei fiumi prodigiosi che tolgono la memoria del male, per lasciare solo il ricordo delle opere buone. Così, è aperta la strada verso il Cielo dei beati; e la cantica termina con la parola stessa con cui finiscono le altre due. Qui, il verso finale recita: «puro e disposto a salire a le stelle»; nell’Inferno: «e quindi uscimmo a riveder le stelle»; nel Paradiso: «l’amor che muove il sole e l’altre stelle». Un esplicito invito a tenere lo sguardo rivolto verso l’Alto.
Non vi sono grandi eventi, in questo canto e nei sei altri «edenici» che lo precedono. Né vi sono gli spettacolari acuti di altre parti del Poema. Ma la zampata del genio di tanto in tanto colpisce, all’improvviso, con quei suoi versi «gnomici», come li chiamano i critici: sentenze e motti, cioè, buoni da incidere sul marmo o da far stampare (una volta usava) sul proprio ex libris o sulla carta da lettere. Come, ad esempio – per stare a questo nostro trentatreesimo – il 54: «del viver ch’è un correre a la morte»; o il 97: «e se dal fummo foco s’argomenta». Ci sono pure, qui, quelle immagini, quelle comparazioni che diresti da cronista di «cose viste» e dove serpeggia un sospetto di toscanaggine beffarda: «Come a color che troppo reverenti / dinanzi a suo’ maggior parlando sono, /che non traggon la voce viva ai denti…» (25-27).
Nel canto appare, comunque, un tono che sembra sospeso tra due mondi: modi stilistici alti, impregnati di grandiose profezie, convivono con modi colloquiali, diresti familiari se non dimessi. C’è, poi, un intreccio continuo tra teologia e politica; e il consueto legame tra cultura cristiana e pagana qui sembra farsi ancor più stretto: oltre a Stazio, le Naiadi, la Sfinge, Temi. Il latino nudo e crudo, in citazione testuale, erompe sin dalle prime parole del primo verso: «Deus, venerunt gentes». Subito sotto, le parole di Gesù non sono nel dialetto di Firenze, bensì nella lingua della Vulgata. Per Dante, non c’è soluzione di continuità tra la venerabile cultura di Roma e quella di una nuova Italia che cerca il suo futuro: forse una lezione da rimeditare in tempi come i nostri, di trivialità localiste e di ricerca di improbabili origini pre-latine.
Ciò che, però, più colpisce il lettore moderno – e, forse, distoglie molti dalla lettura o, almeno, li spinge a saltare molte terzine – è la selva dei simbolismi medievali, che proprio in questi canti sembra farsi più intricata. Un mondo di segni che nelle cattedrali e nei chiostri si faceva pietra e di fronte al quale siamo ormai tutti, o quasi, analfabeti. Non a caso c’è voluto il più scafato dei semiologi, Umberto Eco, per ambientare il suo Nome della Rosa giusto sei anni dopo la morte di Dante, citandolo, e «divertendosi come un matto» – parole sue – in questo labirinto inestricabile. Beato lui. Noi abbiamo smarrito la password per comprendere (è un esempio tra mille) il significato completo dell’aquila, della volpe, del drago, del mostro a sette teste, della puttana – è il termine di Dante che, grazie a Dio, non è politicamente corretto -, del gigante, del grifone che, nel canto precedente, si affollano attorno al carro che è la Chiesa. Carro anch’esso irto di simbologie, parti essenziali di una sapientia fidelium che ai tempi del Poeta univa le classi sociali ma che è ormai impenetrabile per una cultura come la nostra, che rifiuta persino di riconoscere radici cristiane.
Ebbene: proprio Mussolini farebbe parte di questo accumulo simbolico. Così, naturalmente, se si dà retta agli adulatori, che sulla faccenda non esitarono a scrivere apologie a metà tra l’esoterico e il politico. Succede, infatti, che Beatrice profetizza con aria solenne – rinviando, per conferma, a quanto gli astri preannunciano – l’avvento di un misterioso personaggio, qualcuno che sarà forse un imperatore e che, tra le sue imprese, riporterà il papato alla dimensione solo spirituale, assumendo egli il potere politico che la Curia ha usurpato. Una profezia strettamente legata a quell’altra del primo capitolo dell’Inferno, quella sull’altrettanto misterioso Veltro, che «dell’umile Italia fia salute». Per identificare il Veltro , Virgilio – che qui parla – dice che «sua nazion sarà tra Feltro e Feltro». Per almeno una di queste località, anche i commentatori antichi rinviano unanimi a una località della Romagna.
Non ci sarebbe nulla per risvegliare la nostra attenzione, se non fosse che a quel romagnolo che verrà Beatrice attribuisce un nome: nientemeno che DUX. Dice, in effetti, il verso 43 di questo nostro capitolo del Purgatorio, che «il messo», il salvatore politico, sarà indicato da «un cinquecento, diece e cinque». In numeri romani: D, X, V. Procedendo alla semplice inversione di una lettera e dando alla V il valore di U, come normale nell’uso latino, si ottiene un DUX. Lettura, si badi, unanime tra gli esegeti secoli e secoli prima di un certo anno 1922. Dunque, la salvezza per l’Italia e la rimessa al suo posto della Chiesa (un Concordato?) verranno, mescolando i vaticini di Virgilio e di Beatrice, da un «Duce romagnolo»? La cosa era troppo ghiotta per non attirare prima la curiosità e poi, fatalmente, la piaggeria dei cortigiani, alcuni dei quali illustri dantisti universitari, che al Benito offrirono studi, dove l’erudizione si mescola al grottesco. L’Alighieri, insomma, come primo annunciatore dell’uomo di Predappio: Dux, appunto. Il fiero ghibellino, avido di libertà, non se ne sarà compiaciuto, nel suo sepolcro di Ravenna.
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