VITTORIO MESSORI

La lettera, lo spirito e il realismo delle Scritture

24 marzo 2004 :: www.chiesa, di Pietro De Marco

A proposito del film di Mel Gibson e della nota di Vittorio Messori apparsa sul “Corriere della Sera” del 17 febbraio, è prezioso per la riflessione l’accostamento, su”il Foglio” di sabato 21 febbraio, degli interventi del rabbino sudafricano (ora a Washington) Daniel Lapin e di Giorgio Israel.

Nel fondo del dissenso che Messori provoca, anzitutto nel mondo cattolico (non conosco amico teologo, per non parlare degli esegeti, che lo ami; credo di essere uno dei rari ‘intellettuali’ ad apprezzarlo), vi è ciò che Israel sottolinea: la questione del “realismo” delle cose credute (uso “cose” come la Comedia: “sustanza di cose sperate”, “substantia sperandarum”), che è anche la questione del “realismo” della Scrittura.

Non pare però che l’antitesi messoriana cui Israel allude sia quella tra “interpretazioni allegoriche o simboliche della Scrittura” e “lettura assolutamente testuale”.

Le prime sono parte eminente della tradizione esegetica (i più “sensi” della Scrittura, alla ricerca di un più di realtà, non di un meno: “mira profunditas”) non meno della seconda, che è la “lectio historialis”, anch’essa canonica. Ciò che è in gioco è il rapporto tra l’assoluto “realismo” dei contenuti di fede (che non è letteralismo biblico) e la natura dell’esegesi scientifica nelle sue conseguenze religiose.

La intrinseca variabilità dei risultati e l’incapacità di trascendenza segnano il biblista moderno in quanto tale, proprio per la esclusività” historialis” del suo metodo. Egli studia il testo come rappresentazione umana, frutto di intenzionalità, contesti, fonti, stili: non come Parola di Dio, propriamente, ma come una Parola (anzi parole, “verba”) interpretata e trasmessa, creduta ed elaborata. Questo scarto (sia pure per vincolo metodologico) non implica né allegorismo né simbolismo, anzi. E un altro “realismo”, quello dell’agire umano (comunità, redattori, “memory and manuscript”, secondo un celebre titolo) come esclusiva sostanza delle cose dette e scritte.

Scavare l’uomo come attore della sua propria fede è la grandezza dell’esegesi scientifica. Teologia e spiritualità si specchiano, si cercano, da molti decenni nelle molte e divergenti teologie germinali dell’antico Israele e delle prime generazioni cristiane. Ma non può bastare. Non basta alla teologia, non basta alla predicazione, soprattutto non basta alla fede, come mostra il fallimento teologico di Bultmann. Esse non possono nutrirsi oltre misura della contemplazione di se stesse, e sia pure dei propri inizi, della propria genealogia. Basterebbe a disincantarle la liturgia: per quanto indebolita resta pur sempre parola sacra come azione e azione come parola sacra, un “realissimum” scritturale.

Così, se un parroco avvertito predica, di fronte ad una pagina dei “segni” di Gesù di Nazareth: “Sarà avvenuto propriamente così? È la teologia dell’evangelista? In fondo non ci importa. Importa che la Parola di Dio afferma il suo amore, ecc.”, tale derealizzazione libera la mente dei fedeli dal letteralismo: “Proprio cinque pani? Saranno stati di più”. Ma la Realtà li attende al varco, quasi subito: la verità della Parola esige Realtà o non può essere neanche predicata. La Parola di un Dio che non è veramente il Cristo narrato, il Cristo narrato che non può essere rappresentato perché forse non accadde così, non può essere sostanza di alcunché.

Forse per questo leggiamo nel poeta T. S. Eliot: “Go, go, go, said the bird: human kind / Cannot bear very much reality” (Four Quartets, Burnt Norton, I). La Realtà è teofanica e solo la Realtà lo è; assedia terribilmente i cuori. “Go, go, go”. Ma guai a perderla, nel sottrarsi alla sua presa, magari superando la dicotomia tra Cristo della Fede e Cristo della storia col proporre alla fede gli incerti fantasmi gesuani dell’ultima o penultima ipotesi sulla “Quelle”, la fonte, simulazione del “nucleo originario” dei Vangeli.

Che ha a che fare tutto questo con l’ennesima rappresentazione cinematografica della passione? Passione e morte (e resurrezione, senza cui il resto non avrebbe interesse) sono il cuore di ciò che i colti chiamano “kèrygma”, termine bello e intenso diventato usuale. Passione e morte possono essere avvenute in modi diversissimi, comunque inattingibili all’istanza di una (una?) ricostruzione certa; creda Messori che sono insufficienti anche le sue quattrocento pagine. Ma sono avvenute. Ogni realizzazione figurativa che voglia attingerla, diviene allora una sua epifania per noi. Ogni rappresentazione della passione è in questo senso sacra.

L’esperienza di realtà che ne deriva è validata da quell’evento originario. Messori, almeno come io lo intendo, ha ragione. Nessun dibattito, analisi filologico-critica, congettura, possono privarmi non solo e non tanto dell’emozione di quella visione, ma della sua verità cattolica. E quella “mimesis”, comunque sia, è quanto di più prossimo alla verità dell’evento io possa conoscere (miracolo della rappresentazione). Non per la sua plausibilità ricostruttiva. Anche le crocifissioni gotiche o rinascimentali gremite di armati e gentiluomini in foggia contemporanea (e magari quelle populistiche del Novecento) sono epifanie di quella verità. È che la rappresentazione, la “mimesis”, proclama alla mia struttura d’esperienza la realtà di quella verità.

Vi è molto in gioco, qui. Il rabbino Daniel Lapin l’ha colto. Prescindendo con intelligenza dalla querelle dell’antisemitismo. La condanna a morte non è colpa, è mistero d’Israele, come la tradizione cristiana sa, su base paolina. La rappresentazione della passione di Dio (fortemente doloristica nel film di Gibson, si dice, come nella mirabile tradizione delle mistiche, come della devozione del popolo e di molti santi) è icona del veramente incarnato, certezza della sua non-parvenza attuale, parvenza della sua certezza ultima. Messori ha ragione; questa passione cinematografica (ma non solo questa) opera per sé come veicolo della trascendenza-tra-noi. Perché non credere che non solo le nostre fedi larvali di cristiani, ma ogni ebreo e tutto l’ebraismo potranno beneficiare dei suoi “effetti spirituali”, come spera il rabbino?

All’uomo non interessa granché Gesù uomo esemplare (si tratta di un vecchio terreno autoapologetico delle Chiese, onde tranquillizzarsi sulla propria plausibilità) e nemmeno Gesù allegoria dell’amore cui lo riconducono spesso le guide spirituali. Interessano segni e prove dell’Oltre presso di noi e per noi, l’acqua che sgorga dalla roccia, le lacrime di sangue su un’immagine, “El Gran Milagro”, le parole ispirate che vengono alle labbra, Dio che s’incarna e soffre.

In questo senso tutto si tiene. Ed è necessario affermare che le Scritture dicono cose realmente avvenute. Se così non fosse, non sarebbero epifanie del Santo; non sarebbero altro che letteratura antica. Ma è la sorgente di quelle epifanie, ciò di cui le Scritture sono “notizia”, che conta per me.

La reazione negativa, qualche anno fa, di biblisti e paleografi alla tesi di Carsten Thiede secondo cui il vangelo di Matteo è opera di un “testimone oculare di Gesù” fu forse ineccepibile ma sospetta nella sua violenza: fu una vera campagna in difesa di una cultura esegetica e teologica derealizzatrice delle Scritture, e che teme i “testimoni oculari”. Certo, era una risposta alla pressione “fondamentalista” (nel senso primo del termine), ma era una risposta irragionevole anch’essa. La fede ha occhi e guarda oltre a sé, oltre alle catene di uomini che la trasmettono, traguarda il testo scritturale cercandone l’Autore e gli Attori, qui davvero carne e sangue. Vuole e accetta l’oltranza dell’eliotiano “very much reality”. Desiderare di vedere mimeticamente l’Evento è per paradosso la traccia più forte di una “fides substantia”, fondamento, di ciò che si deve sperare. Fede che sa (“argomento delle non parventi”) che testimoni oculari vi furono e che anch’essa può essere di loro, “testis et spectatrix”.

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