31 ottobre 2004 :: Corriere della Sera, di Vittorio Messori
Il Seicento europeo è un secolo estremo. Un secolo con una personalità prepotente, inconfondibile, che lo fa riconoscere subito tra ogni altro. Dici Seicento e, sullo schermo mentale, ti appaiono enormi chiese barocche con cupole a forma di mammella, colonne tortili, statue gesticolanti, grandi tele sovraccariche di personaggi e di colori. Vedi cortei di nobili pomposi, con cappe e spade , impegnati nei rituali di un’etichetta sfarzosa. Ma ti raggiungono anche immagini di appestati, di bande di vagabondi, di stragi tra cristiani, di autodafé spagnoli con gli eretici che vanno verso il castigo con il copricapo buffonesco e la tunica sino ai piedi.
All’ immagine tradizionale di questo secolo hanno molto contribuito, per gli italiani, i Promessi Sposi , la cui vicenda ci appare ormai come impensabile in altra età che non sia questa. In verità, va messa in conto, per il Manzoni, la sua educazione illuministica, dunque tutta la polemica settecentesca contro, appunto, il seicentismo. Nè va dimenticato il suo patriottismo, per il quale questa è l’epoca della totale sottomissione italiana allo straniero. Nei Promessi Sposi ha la sua parte una certa propaganda, a cominciare dal rilancio della “leggenda nera“ del malgoverno spagnolo o dall’allergia del giansenista lombardo a certi aspetti del personale e della pastorale della Chiesa. Domina, sull’immagine manzoniana dell’età barocca, un grigio se non un nero che si sovrappongono, inquietanti, alle apparenze policrome e fastose. Il bilancio generale dell’epoca è, nel grande romanzo, nettamente negativo, così come voleva la prospettiva dei Lumi, seppur filtrati da un cristiano. In realtà, la storia vera non sopporta generalizzazioni nè tollera semplificazioni ideologiche. Dunque, quel bilancio andrebbe completato, non tacendo le miserie, ma affiancandovi anche le innegabili grandezze. Cosa che non sembrò voler fare neppure Benedetto Croce che, pur abitualmente lontano dalle condanne senza appello (“La storia non ha da essere giustiziera, ma giustificatrice“) si oppose ostinato a una lettura in positivo dell’era del barocco. Termine che, per lui, poteva avere solo un suono di condanna .
Il fatto è che , proprio perché estremo, il Seicento non tollera stati d’animo intermedi. O lo si ama o lo si odia; o se ne è attratti o lo si rifiuta. Per quanto conta , sto con primi: con coloro, cioè, che sono affascinati da quest’epoca dove l’umanità si dispiegò, con un vitalismo impressionante, in tutte le sue possibilità , dalle più nobili alle più infami. Poche altre volte nella storia le arti, tutte, diedero una tale quantità di capolavori , in una sorta di esplosione che coinvolse tutta l’Europa. Per stare alla sola letteratura, Shakespeare in Inghilterra, Cervantes in Spagna, Grimmelshausen in Germania, Racine e Molière in Francia. L’Italia rispose, più che con scrittori e poeti (ma il Tassoni e lo stesso Marino non sono irrilevanti, Galileo è un grande prosatore) con artisti come quelli della triade prodigiosa: Bernini, Borromini, Guarini. E lo stesso Caravaggio muore quando il secolo era già iniziato da dieci anni.
Nel contempo, poche altre volte la ferocia dell’uomo contro l’uomo si scatenò, come in quella guerra dei trent’anni, che occupò la prima parte del secolo, che desolò buona parte dell’Europa, che vide la religione strumentalizzata cinicamente dalla politica e che, alla fine, ebbe un solo merito. Lo spaventoso carnaio, cioè, convinse gli spiriti migliori che la fede cristiana non doveva avere più parte alcuna nel provocare e nel radicalizzare la violenza. I trattati di Westfalia -sottoscritti, dopo i tre decenni di stragi, dalla potenze esauste- sono una prima codificazione della tolleranza, anche se per il momento obbligata dalla incapacità della armi di risolvere i conflitti confessionali.
Ma la religione è protagonista del Seicento pure in positivo, almeno in una prospettiva cattolica. E’, questo, “il grande secolo della anime“, come lo chiamò Daniel Rops, il popolare storico della Chiesa. E’ il secolo in cui si dispiega pienamente quella che non va chiamata –gli storici oggettivi sono ormai concordi– “Controriforma“ bensì “Riforma cattolica“. Molti termini storiografici non sono neutrali, nascono tra Settecento e Ottocento per polemica anticattolica. A partire da “Medio Evo”, mille anni relegati così come una parentesi oscura tra le glorie dell’Antichità Classica e il loro ritorno in quello che (anche qui non certo a caso) fu detto “Rinascimento“. Avvenne anche per “Controriforma“, parola coniata dagli storici tedeschi sulla lunghezza d’onda di “Controrivoluzione“, e che ha un suono inquietante, sembra rinviare alla reazione di un belva aggredita e ferita. In realtà, la Riforma cattolica era già iniziata alla fine del Quattrocento, ben prima di Lutero (che, tra l’altro, non fu affatto colui che mise per primo la Scrittura a disposizione di tutti: si sono contate decine di traduzioni cattoliche della Bibbia nei vari volgari quando mancavano decenni alla nascita del tempestoso Agostiniano). L’aggressione del protestantesimo non fece che accelerare un processo che nella Chiesa di Roma era già in pieno corso. Al Concilio di Trento si sistematizzò e si ordinò in documenti quanto da almeno un secolo si dibatteva tra i teologi cattolici. Sta di fatto che proprio nel Seicento la Riforma potè dispiegarsi, mostrando il suo vigore con una serie impressionante di santi, di ordini, di congregazioni, di associazioni laicali. E’ il secolo, della grande epopea (non soltanto in Europa, ma anche nelle missioni americane e pure asiatiche) di Gesuiti e di Cappuccini. Secolo di grandi peccati e di grandi conversioni, di infamie e di eroismi, di perdoni e di vendette, di ricchezze estreme e di estreme miserie, di palazzi e di lazzaretti, di dotti e di ignoranti. Un capitolo tra i più fascinosi dell’avventura umana. Vale la pena di conoscerlo meglio, approfittando anche dell’aiuto di Henry Kamen che ha tra l’altro il merito di far luce su aspetti abitualmente poco frequentati da altri storici.
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