VITTORIO MESSORI

A tavola # 3

 5 marzo 2011 :: La Bussola Quotidiana, di Vittorio Messori con Andrea Tornielli

Caro Vittorio, so che le notizie di cronaca nera non ti hanno mai attirato. Mi dicevi che sarebbe ovviamente assurdo censurare la “nera”, ma anche che lo spazio esagerato ad essa riservato da giornali e televisioni risulta ugualmente ripugnante. Non posso però non iniziare il nostro dialogo a tavola senza chiederti qualcosa sul ritrovamento del corpo di Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa lo scorso novembre all’uscita da una palestra di Brembate. Per tre mesi quel cadavere è rimasto in un campo, all’aria aperta, poco distante da una strada di passaggio, a una decina di chilometri dalla casa della ragazzina. Nessuno se ne è accorto, nonostante le ricerche organizzate avessero battuto palmo a palmo anche quella zona…

Andrea, hai ragione, l’enfasi data alla cronaca nera non solo mi infastidisce ma mi risulta incomprensibile che possa interessare a tanti. Una volta saputa la notizia, perché vogliono sempre di più, che ci trovano di attraente? Masochismo, sadismo, necrofilia, voyeurismo? Vorrei capire… Ma diciamo pure qualcosa a margine della notizia della settimana. Ecco, vedi, l’Italia è un Paese dove di recente si è celebrato forse il settimo od ottavo o nono processo per la strage di Piazza della Loggia a Brescia, avvenuta nel 1974; o dove non si è fatta ancora luce sull’attentato di Piazza Fontana a Milano, avvenuto 42 anni fa; o dove non sappiamo nulla di certo sulla strage aerea di Ustica, avvenuta nel giugno 1980. Se questa è la qualità delle indagini portate avanti dai nostri investigatori e dai nostri magistrati, perché stupirsi se in tre mesi uno schieramento imponente di “rastrellatori” non vede un cadavere all’aperto, poco lontano dalla casa della scomparsa? Vedi, ricordo ancora quando scoppiò la bomba in Piazza della Loggia a Brescia, nel 1974. Allora lavoravo a La Stampa e avevo appena sostenuto l’esame per diventare giornalista professionista. Ricordo ancora i primi flash d’agenzia… Ebbene, ora sono in pensione e si stanno ancora celebrando i processi per quell’attentato. Mi sembra che anche questo piccolo esempio personale la dica lunga sui tempi e sull’efficacia dei nostri investigatori. In effetti. Comunque, per restare sul personale: sai che, per istinto, più che un liberale mi sento un libertario, dunque uno che rispetta poliziotti e giudici, che ne vede la necessità ma che non si sente obbligato anche ad amarli. Diciamo: un anarchico che, però, crede nel peccato originale. Dunque, sbirri, tribunali e galere sono per me un male ma, ahinoi, necessario. Ebbene: mi tocca vivere in un Paese che di polizie ne ha almeno sette: polizia di stato, carabinieri, guardia di finanza, polizia penitenziaria, polizia forestale e in più, in ogni provincia, la polizia provinciale e in ogni comune la polizia municipale, senza contare quella inquietante polizia costituita dai servizi segreti. Uno schieramento di uomini (e, adesso, di donne) in divisa che non ha pari in Europa. Ma non ha pari nella stessa Europa, purtroppo, anche la bassa percentuale di crimini i cui colpevoli siano stati scoperti e arrestati. Tanto che, come sai, ormai la maggioranza non va neppure a fare denuncia di cose come i furti, sapendo che il risultato sarà solo una mezza giornata persa e un fascicolo polveroso in più negli armadi di un commissariato o di una stazione dell’Arma. Ma lasciami parlare da chi ha vissuto tanti anni tra cronache e redazioni e quindi sa, come te del resto, come stanno le cose: a differenza di quanto succede nei Paesi anglosassoni, da noi (ma anche in Francia e in Spagna e, immagino, in molti altri Paesi) tra giornalisti e poliziotti di ogni tipo esiste un tacito patto di non aggressione. Sarebbe un discorso lungo e magari imbarazzante. Comunque, lo sai tu pure: anche in casi come questi, mai leggeremo sui giornali articoli critici verso gli investigatori in divisa, pur davanti all’evidenza di una grave incapacità. Da noi si può attaccare il politico che, da ministro degli Interni, presiede alla polizia o quello che, da ministro della Difesa, ha in carico i carabinieri. Ma, per una regola non scritta ma rigorosamente praticata, i giornalisti non scendono sotto quel livello, non si critica il questore, il colonnello, il capo della Mobile, il comandante della stazione. Anche quando, come forse in questo caso, lo meriterebbero. L’apparente iperinformazione odierna in realtà è piena di buchi che nessuno vuol riempire.

Lasciamo la cronaca e passiamo alla politica nostrana, come sempre caratterizzata da beghe, discussioni e polemiche che assomigliano sempre più a uno sguaiato reality show. Volevo chiederti che cosa ne pensi della posizione della Lega Nord sulla festa del prossimo 17 marzo, dedicata alla celebrazione dei 150 anni dell’unità d’Italia. Sono delle scorse settimane le polemiche del ministro Roberto Calderoli.

La Lega tiene certe posizioni, fa certe dichiarazioni per dovere d’ufficio, fa il “minimo sindacale” di protesta per non deludere i militanti puri e duri. Ma i leghisti un po’ informati sanno che l’unità d’Italia è stata voluta proprio dai padani. E che, tra l’altro, un milanesone doc come Manzoni lavorò tutta la vita per dare all’Italia il collante indispensabile per l’unità: una lingua da usare tutti i giorni, non solo scrivendo poesie e prose auliche. E che nella spedizione dei Mille di Garibaldi non c’erano se non pochissimi meridionali, anzi la maggioranza relativa era di bergamaschi: ben 174, di tutte le estrazioni sociali, esclusi solo i contadini. Non è un caso che all’ingresso di Bergamo ci siano cartelli che oltre al nome italiano, riportano Bèrghem, in dialetto, ma anche ricordino come si tratti della «Città dei Mille». Da sempre un primato risorgimentale di cui lì ci si inorgoglisce ma anche un bel paradosso per la Lega che ha qui una delle sue “città sante”. Ricordi Bossi che, in canottiera su una spiaggia sarda, diceva che 300.000 bergamaschi armati attendevano, nelle valli orobiche, un suo ordine per calare a valle? In ogni caso verrebbe da ricordare non solo ai bergamaschi ma ai padani tutti l’antico adagio, secondo il quale «chi è colpa del suo mal pianga se stesso». Il Sud se ne stava tranquillo per i fatti suoi, non c’era neanche l’emigrazione (che è nata solo dopo l’unità), chi ha voluto, se non i “nordisti”. andare a occuparlo a cannonate? Non a torto i “sudisti” hanno dato vita a quella lotta di liberazione nazionale che i piemontesi hanno squalificato come “guerra al brigantaggio”. L’abbiamo preso e l’abbiamo tenuto ricorrendo persino alle fucilazioni in massa e al rogo di interi paesi. Che abbiamo da lamentarci, noi della Padania?

Non credi però che, al di là delle “sparate” sulla secessione , le idee della Lega abbiano ancora presa sulla gente del Nord?

Ma sai, anche qui le contraddizioni imbarazzanti non mancano. Prendi gli alpini: quando c’era la leva, era il solo corpo militare “etnico”, reclutava solo i giovani della zona alpina con l’unica, piccola aggiunta dell’Abruzzo montano. Il cappello con la penna nera era, ed è tuttora, una icona della Lega e molti tra le migliaia e migliaia di soci dell’ANA, l’associazione d’arma, formano lo zoccolo duro del partito, e non solo delle origini. Stando nel Bresciano, vedo quasi ogni domenica un raduno di alpini in qualche paese. Ma che vedo? Tricolori dappertutto, canzoni patriottiche, onori ai caduti, innalza ed ammaina bandiera, acclamazioni alla Patria. Sindaci leghisti che, in fascia tricolore, portano corone al monumento ai morti delle guerre “italiane”. E buona parte dei protagonisti di quelle kermesse nazionali frequentano le locali sezioni leghiste. Strano secessionismo! A me, comunque, sembra che il Carroccio sia stato spiazzato dall’imprevedibile e rapido mutare dei tempi. La Lega era nata come reazione alla “invasione” del Nord da parte dei meridionali. Ora però – e ti porto ad esempio la situazione che per motivi personali conosco meglio, quella di Torino – accade che i figli e i nipoti degli immigrati meridionali sono diventati più piemontesi dei piemontesi e fanno fronte comune con i vecchi “indigeni” per opporsi a un’altra invasione, quella degli immigrati stranieri. La distinzione non è più tra “padani” e temuti “terroni”, bensì tra “italiani” e temutissimi nordafricani, albanesi, romeni, neri, gialli e così via. Ricordo la Torino spaventata dall’arrivo dei treni dal Sud, ora c’è una Italia intera spaventata, dalla Sicilia al Trentino, dall’arrivo dei barconi a Lampedusa. Non se ne parla, ma questo sta provocando una mutazione profonda nella Lega che è rimasta senza terroni da combattere e già ora chiede la chiusura delle frontiere. Ma non, come un tempo, quella sulla Linea Gotica, sull’Appennino, ma quelle verso l’Est dell’Europa e verso l’Africa. Credo che questa immigrazione da ogni dove stia contribuendo a far riscoprire la solidarietà tra le varie parti della Penisola, rendendosi conto delle cose che ci uniscono – dalla religione, alla lingua, al cibo …- e che ci differenziano dagli “altri”.

L’ex presidente del Consiglio Romano Prodi ha rilasciato un’ampia intervista a Famiglia Cristiana. Mi piacerebbe che ci soffermassimo su due affermazioni che ha fatto. La prima, ovviamente riferita al caso Ruby e al comportamento del premier Berlusconi è questa: «L’uomo politico deve essere giudicato dai fatti. Ma tra i fatti c’è prima di tutto l’esempio. L’esempio di un politico incide sui comportamenti quotidiani di tutti. Profondamente».

Ho letto questa risposta di Prodi, e non ti nascondo di aver reagito con un sorriso. Bada bene, ne abbiamo già parlato piuttosto diffusamente nella nostra prima conversazione a tavola: io sono pienamente d’accordo con il presidente della Cei, il cardinale Bagnasco, quando afferma che un uomo politico, un rappresentante delle istituzioni, ha il dovere di comportarsi (almeno pubblicamente) in modo sobrio e onorevole, anche in considerazione di ciò che in quel momento è chiamato a rappresentare. E dunque non vorrei che qualcuno leggesse ciò che sto per dire come un’assoluzione del Cavaliere, che invece ha delle responsabilità gravi che ogni persona oggettiva vede e depreca, non per moralismo ma per senso di opportunità, non per fariseismo ma per realismo. Però, ti dicevo del mio sorriso per quanto detto da Prodi. Beh, Andrea, abbiamo appena parlato del Risorgimento, dei Padri della Patria, e forse gioverà ricordare che Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Garibaldi e per non parlare di Vittorio Emanuele II sono stati tutti dei gran puttanieri… pardon, libertini! E lasciamo perdere il quarto Padre della Patria, Giuseppe Mazzini, che nonostante si vantasse del suo ascetico celibato, si diede molto da fare con le londinesi, tanto che gli sono attribuiti molti figli “naturali” tra cui Ernesto Nathan, il primo sindaco massone ed ebreo (da parte di madre) di Roma. Mazzini fu comunque assai peggio di un libertino: fu il freddo mandante di omicidi, ha sulla coscienza molti morti nelle stolide rivolte che fomentava pur sapendo che sarebbero finite in inutili massacri e morì con sul capo un paio di giustificate condanne a morte. Ecco, se fosse applicato il principio di Prodi che un buon politico deve dare sempre e solo un buon esempio di vita, che dovremmo fare con i festeggiamenti del 17 marzo e i nostri glorificati Padri della Patria, dalla moralità così poco edificante?

Ti volevo però far reagire anche su un’altra affermazione di Prodi a Famiglia Cristiana. Pur senza nominarlo, l’ex premier ha infatti ironizzato su monsignor Rino Fisichella, il quale, dopo la bestemmia contenuta nella barzelletta di Berlusconi aveva detto che questa andava «contestualizzata». «Fin da ragazzo – ha detto Prodi – mi è stato insegnato da autorevoli uomini della Chiesa che non si può agire con la morale a seconda delle situazioni. Quando sento dire che certi atti dipendono dal contesto mi chiedo: cos’è cambiato dall’insegnamento che ho avuto a oggi? Conservo ancora gli appunti di quegli insegnamenti». Che cosa ne pensi?

Non ti posso nascondere la mia sorpresa. Sono letteralmente saltato sulla sedia. Mi permetto di consigliare a Prodi di rivedere i suoi appunti, e mi piacerebbe sapere quali siano questi autorevoli uomini di Chiesa che gli hanno trasmesso un simile insegnamento, perché è vero esattamente l’opposto: nel sistema etico cattolico, i principi generali e astratti della teologia morale si applicano poi, in modo equo ed adeguato, alle singole persone, alle situazioni concrete È la famosa casistica o “casuistica” che non fu solo dei gesuiti barocchi (quelli con cui polemizzavano i giansenisti) ma è parte essenziale della morale cattolica. Ed è quello che fa la sua gloria, la sua umanità. Il cristianesimo non è una astratta, feroce, ideologia che si abbatte comunque, sempre eguale, sulla testa della gente che è, invece, sempre diversa. No: i principi generali e universali vanno adattati alle singole situazioni, ai singoli casi. I principi non vengono rinnegati o depotenziati, ma si applicano alle situazioni particolari, tenendone conto: non è un caso che un tempo i confessori avessero accanto a loro nei confessionali delle Summae dei “casi di coscienza”. Nel caso specifico della bestemmia alla Berlusconi, monsignor Fisichella aveva perfettamente ragione a invitare a considerare il contesto.

Ma quella bestemmia resta una bestemmia… o no?

Vedi, il problema di Berlusconi in quel caso è stata la volgarità, non la blasfemia. Si è trattato di una sciocca barzelletta da bar Sport, che nel finale, per far ridere, prevedeva una bestemmia. Questa faceva parte, per così dire, della logica della presunta freddura. Una sorta di irriverente gioco di parole. Certo, non ci edifica e non ci entusiasma un presidente del Consiglio che racconta di queste storielle triviali, da padroncino col Suv parcheggiato sul marciapiede e l’aperitivo sorbito nel cerchio dei tifosi, in attesa di andare ad imprecare e a insultarsi allo stadio. Ma non intendeva offendere Dio, voleva fare lo spiritoso, e lo ha fatto in modo riprovevole. Ma poiché è vero che ogni atto umano va giudicato nel suo contesto, in quel caso è evidente che non c’era la volontà di bestemmiare la Divinità ma quella di far ridere gli amici del bar Sport. Comunque, per confermare quanto sia davvero strabiliante il cattolicesimo alla Prodi, un solo esempio tra gli infiniti possibili: chi mai metterà in dubbio la validità eterna e immutabile del comandamento “non uccidere”? Ma chi sarà così astratto ed ottuso da considerare omicidi allo stesso modo chi uccide un uomo per rapinarlo o chi lo uccide travolgendolo con l’auto – in un momento di pur colpevole distrazione – mentre attraversa la strada sulle strisce? “Non rubare!” dice il Decalogo, ma una cosa è scippare la povera pensione alla vecchietta, altra infilarsi in tasca un dentifricio al supermercato… Eh sì, la “peccaminosità” delle azioni non è sempre la stessa ma dipende dai “casi”: da qui, la sacrosanta “casistica” cattolica.

Vittorio, per concludere: molti lettori hanno apprezzato le parole che la scorsa settimana hai dedicato allo scandalo degli affitti di favore al Pio Albergo Trivulzio. E mi sembra che tu voglia tornarci sopra…

Lasciami fare, Andrea, un’appendice a quella storia esemplare, raccontata la settimana scorsa, di Cinzia Sassi, compagna ufficiale di Giuliano Pisapia, lo sfidante del Pd, scelto alle primarie per le elezioni a sindaco di Milano. Quella Sassi, cioè, che ogni giorno – sul suo giornale di sempre, Repubblica – quando i semplici si entusiasmavano per Di Pietro, scriveva articoli indignati contro il malcostume dei partiti e che pubblicò addirittura un libro furibondo contro “il sacco di Milano”. Ma il divertente, come dicevamo, è che quelle pagine edificanti di “coraggiosa denuncia” sono state scritte nell’alloggio (120 metri quadri, nel centralissimo ed elegante corso di Porta Romana) concessole a “prezzo politico” – un affitto da monolocale in periferia – da Mario Chiesa. Cioè, proprio quel Presidente del Pio Albergo Trivulzio da cui era iniziata Tangentopoli e che mentre la Sassi tuonava contro di lui, da paladina intrepida della giustizia, era in galera. «Bella gratitudine…» ha borbottato in una intervista Paolo Pillitteri, sindaco socialista di Milano al tempo dei favoritismi e che aveva raccomandato a Chiesa la reporter di Repubblica che, in quella casa, ha vissuto indisturbata, senza ritocchi di affitto, per ben 22 anni. Ma divertente anche la difesa della moralista incorruttibile, della “indignata speciale” contro i privilegi colta in flagrante: ha detto che sì, da 22 anni pagava quello straccio di affitto al Pio Albergo Trivulzio ma non ricordava assolutamente come fosse venuta in contatto con quella istituzione e come le fosse stata dato quell’alloggio. Ah, quella benedetta memoria che ci tradisce quando ne avremmo più bisogno !… Una difesa (va detta per par condicio), che ricorda molto quella di quel deputato e ministro del governo Berlusconi, uno dei fondatori del Pdl, Claudio Scajola. Come ben sai, risultò che il suo grande alloggio vista Colosseo costava più del doppio di quanto l’aveva pagato. Il restante era stato regolato in nero. L’onorevole Scajola mostrò di cadere dalle nuvole: non ne sapeva nulla, doveva essere un caso di benefattore sconosciuto! Qualcuno, sostenne, doveva avere saputo che stava trattando per quella casa, era andato dal venditore e, senza avvertire l’aspirante acquirente, aveva versato di sua tasca molte centinaia di migliaia di euro. Raccomandando di non dir nulla all’onorevole Scajola, era solo un ammiratore che voleva restare anonimo. Eh sì, caro mio, bisogna stare attenti: i tempi sono questi, in giro, ormai, c’è gente che paga per noi e non vuole neanche essere ringraziata! Si aggirano strani Robin Hood, benefattori dei già benestanti…

Ma perché , Vittorio, tornare sopra la vicenda della cronista di Repubblica e del suo convivente candidato sindaco di Milano per il Partito Democratico? Il quale, tra l’altro, più di 20 anni fa, non stava con la Cinzia Sassi e, nonostante abbia ricevuto un grave danno alla sua immagine di implacabile nemico di ogni privilegio e ingiustizia sociale, non può essere consideratoin alcun modo responsabile della combine con i politici finiti poi in galera?

Vale la pena di ritornarci sopra, Andrea, perchè questa settimana sotto il Pio Albergo Trivulzio è andato a manifestare proprio Antonio Di Pietro, con un codazzo di adepti di quel suo partitino personale che ha un nome non sai se ridicolo o agghiacciante, ricordando l’incubo della “Repubblica della virtù” di Robespierre, la Repubblica della ghigliottina: “Italia dei valori”. Qualche giornalista impertinente ha chiesto all’ex-magistrato – che mirava alla politica e che ci arrivò a colpi di manette, carcerando innocenti nella misura del 70 per cento, come poi stabilirono i tribunali – dov’era la logica di quella protesta. L’Idv di Di Pietro, in effetti, si è schierata con il Pd per sostenere alle elezioni milanesi Pisapia il quale, a sua volta, è sorretto a lancia in resta dalla Repubblica della Cinzia, la beneficata da Paolo Pillitteri e Mario Chiesa, le prime vittime del pm molisano. Vedi, non sono del tutto d’accordo con la tua affermazione: l’avvocato Pisapia che Di Pietro appoggia, sapeva da molti anni che l’alloggio della convivente Cinzia era del Trivulzio e di certo, data l’intimità quotidiana con la Cinzia, non gli era sconosciuto neanche il modo in cui era stato concesso. Eppure non solo non ha fatto nulla per interrompere quello che, per le sue categorie da Rifondazione Comunista (da cui viene), era “uno scandalo borghese”, ma durante la campagna per le primarie ha posato proprio in quelle stanze per servizi fotografici a colori e per interviste televisive. Di più: appena scoppiato il caso, il Pisapia inveì contro i giornali che “gettavano fango” su colei che, disse, “rappresenta ciò che ho di più caro nella vita” e assicurò che, comunque, la sua Cinzia aveva disdetto ormai da tempo quell’affitto di favore. Ebbene, un insospettabile giornale di sinistra ha dimostrato che la Sasso si precipitò al Trivulzio, per la disdetta, il giorno prima che uscissero le liste degli inquilini: da giornalista aveva saputo del pericolo e cercava in extremis di correre ai ripari. Trucchi di tutti e due, insomma, non della sola beneficata dai vecchi socialisti di Craxi, Pillitteri, Chiesa. Comunque, per tornare a Di Pietro: il giustiziere molisano ha fatto spallucce alle domande dei giornalisti “provocatori”: semmai, “ piccole debolezze”, ha detto, quelle della giornalista di Repubblica e del candidato sindaco a Milano del Pd. Debolezze, però, come quelle in base alle quali il Di Pietro stesso rinchiuse in cella tanti, alcuni dei quali si sono suicidati ed altri hanno peso onore, famiglia, amici prima di essere assolti, dopo anni ed anni di calvario. Insomma, Andrea, valeva la pena di riparlarne: è una storia esemplare sul moralismo e i moralisti che oggi impazzano e che, purtroppo, sembrano scroccare l’ammirazione e la fiducia anche di qualche cattolico che ha dimenticato che cosa sia l’etica vera. Quella del Vangelo. La sola che esiga coerenza tra il dire e il fare e che nulla ha da spartire con la morale da partito o da giornale “illuminato e democratico”.

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