Il Mistero di Torino, una strana coppia indaga

3 settembre 2004 :: La Stampa, di Angelo d’Orsi

Dei «misteri di Torino» – con allusioni non sempre esplicite a un lato magico, esoterico e talora, per qualcuno, addirittura infernale – si parla da troppo tempo. Un serbatoio di luoghi comuni che accolgono talvolta il torinese quando si proietta fuori della cinta daziaria. Al Mistero di Torino – al singolare – in un significato ben più largo, è dedicato il libro di Vittorio Messori e Aldo Cazzullo in uscita il 14 settembre da Mondadori: attenzione, non a una specifica questione, «misteriosa» o «misterica» che sia, si riferisce il titolo: ma, semplicemente, alla complessità irrisolta di una città, come fa intendere il sottotitolo «Due ipotesi su una capitale incompresa». Gli autori (le cui ipotesi sottintendono l’idea che finora Torino sia stata vittima o di una «vulgata» insoddisfacente, o che chi l’ha studiata abbia lasciato troppe «zone d’ombra») sono due giornalisti non torinesi (Messori modenese, Cazzullo piemontese di Alba), ma con la città della Mole hanno avuto rapporti importanti e duraturi.

Una strana coppia, quella di un cattolico senza simpatie «sociali», come tiene a precisare, e un laico moderatamente edonista e scanzonato. Ma, a ben vedere, il loro non è un libro scritto a quattro mani, bensì la fusione astutamente editoriale di due diversi libri, a loro volta nati dalla fusione di frammenti già editi dall’uno e dall’altro, opportunamente rivisitati. Il risultato è piacevole, anche nelle sue dissonanze. Certo non ci si aspetti un lavoro di ricostruzione storica o di analisi sociologica della realtà di Torino; e gli studiosi non avrebbero difficoltà a muovere appunti e fare rilievi critici, anche severi. Sarà meglio allora affrontare queste pagine con lo spirito di un turista per caso, che si inoltra, seguendo i tracciati autobiografici degli autori, per una disimpegnata, ma non sciocca, flànerie: a zonzo tra Borgo San Donato e Mirafiori, tra San Salvario e la mitica «cittadella rossa», Borgo San Paolo, a cui Messori dedica cenni sardonici, con una penna spesso acida.

Ci si imbatte, dunque, in personaggi importanti e in figuro caratteristiche, tipi e luoghi di una Torino scomparsa, alla qua le Messori, che vi arrivò nel ’46, guarda con nostalgia, salvo poi accusare la sinistra, quando ritornò al governo della città, negli anni 70, di non aver saputo nè voluto cogliere le esigenze della modernizzazione. Messori scrive bene ed è sempre di lettura a interessante, ma certo a volte le spara grosse, come quando accesa Diego Novelli, il «sindaco rosso» per antonomasia, di voluto trasformare Torino in «una Berlino Est subalpina».

Ma c’è tanto altro, naturalmente, nei «Dodicimila giorni torinesi» di Messori, che egli racconta ora con affetto, ora con acrimonia, non rinunciando alle punture polemiche, anche a coloro che dichiara di aver amato di più, come Luigi Firpo o il cardinal Ballestrero. Ecco dunque spuntare, oltre all’immancabile Liceo D’Azeglio la trascurata Elementare Pacchiotti, il vasto mondo del cattolicesimo (Messori ha ragione a insistervi), le grandi figure dei maestri universitari o le firme del giornalismo, di cui, anche sulla scorta delle, mie ricerche, Messori ricorda i trascorsi fascisti: si direbbe, con molto gusto…

Su due capitoli dedicati alla Stampa, testata per la quale i due coautori hanno lavorato, fa specie, perciò, che in quasi 500 pagine, fra tanti nomi manchi quello di Luigi Salvatorelli, giornalista e storico autentico, che del giornale fu una colonna egli anni Venti e poi nel Dopoguerra.

Del resto la Torino raccontata Cazzullo e Messori è essenzialmente la città degli ultimi sessant’anni sempre sulla scorta della testimonianza personale con qualche ausilio proveniente dalle notizie attinte alla viva voce dei protagonisti e, raramente, alla saggistica o alla letteratura. Naturalmente c’è tanta Fiat: la Fiat come «madre» (accogliente o matrigna) dei torinesi del XX secolo, dispensatrice di lavoro e raccoglitrice di profitto, orizzonte, speranza, e talora anche dannazione, specie nei tempi duri, di migliaia di torinesi, soprattutto quelli venuti dal Sud.

Cazzullo, efficacemente, esordisce con il richiamo di quella imponente manifestazione che fu il tributo popolare alla salma dell’Avvocato, simbolo di una città che stava scomparendo. Una città che viene qui percorsa quasi palmo a palmo, incontrando imprenditori e politici, intellettuali e finanzieri. Cazzullo racconta, per ragioni anagrafiche, vicende e personaggi a noi più vicini, anche se non mancano le incursioni in anni remoti. Tante sono le «aggiunte» curiose, gli aneddoti simpatici, i pettegolezzi pepati. Il suo autobiografismo non ha il sapore della nostalgia, ma semmai di una contenuta gratitudine, ora che l’autore vive e lavora non più sotto la Mole. Che se ne debba trarre la morale che solo una volta che ci si è allontanati da Torino si possa provare a svelare il suo «mistero»?

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