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A Desenzano

Nell’estate del 1990, lo scrittore lascia Milano e si trasferisce a Desenzano del Garda. Dice: “Non ho mai avuto nostalgie bucoliche, tentazioni verdi, fisime ecologiste. Al contrario, amando la storia, ho sempre amato le grandi città, teatro di quell’avventura umana in cui cerco di scorgere e decifrare le tracce e i segnali del Dio che ha voluto entrare nella nostra storia. Così, ho amato Torino, questa grande e dura città industriale, dove sono cresciuto, dove ho lavorato; e poi, pur punto spesso dalla nostalgia per il Po e la Mole, non mi è dispiaciuto trasferirmi a Milano, dove pensavo di trovare una sorta di New York italiana.

“Nella città lombarda ho vissuto una dozzina anni e, pur dicendole la mia simpatia e la mia gratitudine (è difficile non volerle bene!) devo confessare che sono rimasto deluso: più che una metropoli, ho trovato una città non solo soffocata da un cumulo di funzioni troppo gravose per la sua struttura –non è mai stata capitale di un regno- ma anche paralizzata dall’impotenza delle precarie giunte della fine della cosiddetta prima Repubblica. Quando poi, nel periodo del sindaco-cognato, Paolo Pillitteri, ho visto ogni dinamismo soffocato dall’ideologia rosso-verde di cui il sindaco era ostaggio (l’ideologia sedicente progressista, in realtà spaventosamente reazionaria, per la quale il metrò sarebbe borghese e il tram proletario, quella per cui ogni auto è un male e ogni bicicletta o autobus un bene, quella per cui ogni cantiere è speculazione e ogni opera pubblica spreco borghese), quando ho visto questo, ho deciso che non avrei più sopportato di vedere una simile camicia di forza imprigionare una città piena di energie potenziali e inespresse.

“Dunque, non me sono andato per sfuggire alla grande città: al contrario, me ne sono andato perché non era in realtà la metropoli che sognavo; e, soprattutto, perché lo schematismo ambientalista e il passatismo dei cosiddetti progressisti faceva di tutto per impedirle di diventarlo. Sognavo grattacieli, metropolitane, negozi aperti di giorno e di notte, il respiro della libertà di fare e disfare, di salvarsi e dannarsi, santi e criminali, il capitalismo con le sue durezze e con le sue opportunità (non a caso i miei film di culto sono Giungla d’Asfalto di John Huston e Metropolis di Fritz Lang) e invece Milano, come tutto il Paese, era paralizzata da una cultura – qualcuno la chiama clerico-marxista- che aborriva ciò che io amavo e ripeteva le sue lagne moraleggianti e le sue parole magiche da città dell’utopia, dove tutti dovrebbero volersi bene e, soprattutto, praticare quella “solidarietà” che ha preso il posto della ormai impronunziabile “carità“.

“Dove andare, comunque, visto che ero del tutto libero, che non avevo più obblighi di redazione né figli, con i relativi problemi scolastici? Ho scelto quello che, dai tempi di Virgilio e di Catullo è il mare di noi padani: il Benacus, il Garda. Ci sono venuto con la mentalità dell’esiliato: in effetti, non ho scelto il paesino, bensì il maggior centro del lago, la sua piccola –ma vivacissima– capitale, con una importante stazione ferroviaria (sin da bambino ho un amore violento per i treni) e un casello autostradale, a un’ora di quella Milano abbandonata per delusione. E non ho scelto la casa turistica “vista lago”, ma un palazzina con giardinetto in pieno centro storico, a pochi metri della piazza principale. A Milano, comunque, ho conservato a lungo la mansarda, nel quartiere cinese attorno a via Sarpi, dove ho scritto tutti i miei libri “milanesi”. Sul Garda lombardo, preciso, mi trovo benissimo: c’è, in questa civiltà bresciana, l’unione della solidità celtica con l’umanità latina e questo crea un ambiente umano che mi è congeniale. Sono venuto in punta di piedi, con la massima discrezione. Ma appena saputo che c’ero, assessori, biblioteche, Rotary e Lyons Clubs, parrochie e quant’altro hanno cominciato ad invitarmi per conferenze, dibattiti, manifestazioni. A tutti, con gentilezza e fermezza, ho spiegato che ero venuto per far vita ritirata, dedicandomi in pace alla mia ricerca. Hanno capito, senza insistere. E io sono grato a questi miei ormai concittadini anche della loro civilissima discrezione che mi ha permesso, tra l’altro, di tenere fede al mio impegno di non parlare mai in pubblico in questo posto in cui vivo. Così, mi è capitato di dovermi “esibire” , costrettovi dai miei editori locali, a Toronto e a Parigi, a Lisbona e a Madrid, a Roma e Losanna: ma mai a Desenzano”.

La vita quotidiana

Nella città lacustre, Messori ha sistemato la sua ingombrante biblioteca specializzata in scienze religiose (circa 20.000 volumi , in continuo aumento) e, con la moglie Rosanna, conduce vita semplicissima e il più possibile solitaria, com’è nei suoi gusti. Barche, piscine, auto di lusso, servitù, attrezzature tecnologiche ed elettroniche, abiti alla moda viaggi esotici: ciò che per altri è un sogno, per lui sarebbe un incubo. Ma non certo per un moralismo, che detesta in ogni caso: “Il fatto è che tutto ciò che va al di là dei bisogni primari (diversi per ciascuno: io, per esempio, ho un bisogno patologico di carta stampata) non esige solo denaro ma anche tempo, applicazione, spesso fatica. E io, invece, voglio coltivare il mio otium , la libertà di pensare a ciò che davvero mi interessa. Mi infastidiscono comunque le prediche, purtroppo spesso clericali, contro quello che chiamano “consumismo” e detesto i pauperismi demagogici. Se mi piace vivere, in fondo, come un povero (escludendo gli acquisti massicci di libri e di ogni sorta di giornali) non è per virtù ma per pigrizia: è ben più comodo non dovere studiare, ad esempio, i complicati libretti di istruzione di tanti marchingegni per il cosiddetto divertimento; così come è comodo non avere domestici per casa o non dovere occuparsi di una barca ormeggiata qui nel porto. Quanto ai viaggi, non riuscirò mai a capire quelli che addirittura pagano per soffrire tra aeroporti e autostrade”.

Al mattino, vestito come capita, la colazione e la lettura dei giornali al tavolino –che gli è ormai riservato, vista la fedeltà di frequentazione– di un vecchio caffè sulla piazza principale, dominata dalla statua della desenzanese sant’Angela Merici, fondatrice delle Orsoline. Una passeggiata sul lungolago, una visita nella libreria e poi lo studio, la scrittura , la corrispondenza. Nessun impegno mondano o sociale o, meno che mai, politico, nessuna frequentazione delle pur molte case che sarebbero liete di averlo ospite: “La sola tessera che ho avuto in tasca, per qualche anno, è stata quella del Touring Club, per avere lo sconto sulle pubblicazioni, nonché quella dell’Automobil Club, per il soccorso stradale. E poi, ovviamente, l’obbligato tesserino –ogni anno bollato- dell’Ordine dei giornalisti . E’ tutto, quanto a mie “appartenenze“ e “militanze”. Sia chiaro, però, che neppure in questo mai mi sognerei di propormi ad esempio: grazie a Dio le vocazioni sono diverse e sono ben contento che altri, che vi sono chiamati, si impegnino a livello religioso, culturale, anche politico. Detestando, poi, lo dicevo, ogni moralismo austero, ogni tristezza giansenistica (e lieto che tra le accuse fatte a Gesù da quei maestri di bigottismo severo dei farisei ci fosse quella di essere “un mangione e un bevitore“) sono altresì contento che tanti coltivino amicizie e si frequentino in cene e feste. Ma io, che ci posso fare? Sento che il mio mestiere è riflettere, pensare, studiare e cercare poi di proporre ad altri quanto mi sembra di avere capito: dunque, mentre per tanti la solitudine è una sofferenza, per me è una gioia. Del resto, mi basta la compagnia di mia moglie della quale –mi si permetta di dirlo– è straordinaria l’umanità, la capacità di comprendere e di volere bene. Così come è singolare la sua preparazione culturale, che rischia di darmi un complesso di inferiorità: tre lauree lei, una sola io… Non a caso, scrive anche lei libri, e di grande interesse, oltre che articoli”.

Il “mostro di Rimini”

Messori si è appena trasferito a Desenzano quando esplode, imprevista e clamorosa, una bagarre che per almeno un paio di settimane lo sbatterà sulle prime pagine dei giornali e nei titoli di testa dei telegiornali. In effetti, nell’agosto di quel 1990, presenta a Rimini, al Meeting di Comunione e Liberazione, il suo libro appena pubblicato: una biografia del beato Francesco Faà di Bruno, con il titolo Un italiano serio. Messori è cresciuto (senza allora saperlo, non essendo cattolico) nel quartiere torinese di San Donato, dominato dall’altissimo campanile, capolavoro di statica, progettato e costruito da Faà di Bruno. Nel lungo capitolo introduttivo del libro, spiega le ragioni per le quali ha scelto proprio questa figura straordinaria, eppure semi ignorata, della Torino del XIX secolo. Ma, al di là del protagonista messo sotto la sua lente, il “piano” che si era proposto prevedeva anche un lavoro del genere: “Volevo proporre la figura di qualcuno che avesse preso radicalmente sul serio il vangelo, proprio per mostrare quali fossero, in concreto, gli effetti positivi della fede sulla vita di coloro che ne accettano tutte le conseguenze. Anche questo è un modo, e non dei minori, di fare “apologetica” : mostrare la verità della parola di Gesù non con dei ragionamenti ma con l’esempio concreto, inconfutabile, di un credente in Lui. Non a caso ho messo come motto al libro una frase di Evagrio Pontico, il monaco del IV secolo: ‘A un teoria si può rispondere con un’altra teoria. Mai chi mai potrà confutare una vita?’”.

Al Meeting di Rimini, quell’anno i molti giornalisti inviati dalle loro testate per raccogliere polemiche politiche sono delusi e annoiati : pochi leader partitici, pochi spunti che facciano titolo. Attribuiscono così a Messori la battuta di uno storico, durante l’affollatissima presentazione del libro su Faà di Bruno, per annunciare con clamore che lo scrittore “ha chiesto un tribunale di Norimberga per Cavour, Garibaldi e Mazzini”. In realtà, ciò che loro interessava era il dibattito suscitato dalla realtà politica allora emergente, la Lega Lombarda di Umberto Bossi, con la sua polemica contro il Risorgimento e l’Unità Italiana. Aiutando anche la consueta “magra” estiva di notizie, inizia sul media-system una campagna di incredibile violenza e unanimità (destra e sinistra unite, cattolici –purtroppo– compresi) contro colui che viene trasformato in una sorta di “mostro di Rimini“. In tre articoli su Avvenire, raccolti poi ne La sfida della fede (pp. 435 ss.) Messori ha spiegato, in modo amaro ma non senza ironia, come andarono davvero le cose.

Comunque, tra le ricadute positive di quell’episodio clamoroso di inciviltà e di disinformazione, ci fu che forse proprio da lì giunse alle masse un primo segnale di quel benefico “revisionismo” storico che dominerà gli anni seguenti: può esserci, cioè, una realtà diversa e poco edificante dietro certi miti intangibili, dietro a epopee codificate e imbalsamate come quella del Risorgimento. Risorgimento che tra l’altro Messori, trattato come un rozzo dilettante durante il linciaggio mediatico, conosce assai bene, sin dai tempi della tesi di laurea e che da allora, da buon “torinese“ non ha mai smesso di frequentare. Tra le ricadute positive ci fu anche la stima accresciuta per lo scrittore, la cui difesa, sui giornali, fu al contempo ferma e pacata. Naturalmente, la bagarre fu benefica anche per la diffusione del libro che, dopo molte edizioni presso le Edizioni san Paolo, nel 1998 fu scelto da don Luigi Giussani per la collana che dirige per la Rizzoli-Bur, con il titolo Un cristiano in un mondo ostile: proposto ai ciellini come “libro del mese“, ebbe una nuova diffusione di massa.

Il caso Cristo

Nella primavera del 1992, lo scrittore si decide a pubblicare la prima parte delle “puntate” del Caso Cristo, che ha ancora in corso su Jesus. Pubblica, cioè, i primi 37 capitoli con il titolo Patì sotto Ponzio Pilato? e con il sottotitolo Un’inchiesta sulla passione e morte di Gesù. Spiega: “Con le Ipotesi avevo cercato di fare un bilancio generale del problema della storicità dei vangeli. Volevo però andare più a fondo, fare una sorta di zoom per passare al vaglio episodio per episodio, parola per parola.

Per far questo, non potevo scegliere altro che il blocco del Mistero Pasquale: i racconti, cioè, di passione, morte, risurrezione. Sono questi il cuore dei vangeli, che qualcuno ha chiamato –con un paradosso che esprime però una verità– semplici storie della morte e risurrezione di Gesù con un lungo prologo. Come al solito, prima di scrivere come un giornalista, ho cercato di lavorare come un professore: dunque non ho lesinato il tempo e la fatica, ho cercato di informarmi al meglio, di essere cioè un divulgatore ma non un dilettante”.

Ancora una volta, il successo, non solo italiano, è straordinario: tanti lettori non avrebbero mai immaginato che, tra le loro letture, ci sarebbe stato anche un libro di esegesi biblica! Partiti, magari, con il timore che certi argomenti fossero troppo ardui per loro, sono stati avvinti, pagina dopo pagina, concludendo poi con la frase canonica: “Ma si legge come un romanzo!”.

Al consueto favore del pubblico (una ristampa dopo l’altra, migliaia di lettere, recensioni su giornali più importanti, quelli laici compresi) fa riscontro il silenzio di molti specialisti, soprattutto cattolici.

“Buon segno” dice lo scrittore “Se ci fossero state sciocchezze grosse mi avrebbero stroncato. Se tacciono, vuol dire che gli appigli per la stroncatura non sono così agevoli…”. Qualcuno, però, pubblica articoli aggressivi, sulle riviste specializzate. “Un mio maestro, all’università, mi ha insegnato che –come per tutto, del resto, nella vita, soprattutto per un credente- le critiche degli esperti vanno prese sempre sul serio ma mai sul tragico. Qualcuno ha detto che, spesso, “ il maggior nemico di un professore è il buon senso“. Può valere anche per certi biblisti e tante loro teorie, presentate come granitiche e regolarmente smentite dalla generazione di biblisti successiva. Comunque, sia chiaro: devo tutto, o quasi, agli specialisti, ai biblisti, ai teologi. Il loro ruolo è prezioso, anzi indispensabile. I miei libri sono costruiti con il loro lavoro: e, come mi è stato riconosciuto, appoggio ogni citazione presa dalle loro opere con nome e cognome. Ma i ruoli sono diversi: mio dovere è rivolgermi al grande pubblico, quello dei cattedratici è misurarsi con i loro colleghi . Occorre qualcuno che –spesso con grande fatica, sempre a suo rischio e pericolo– faccia da tramite tra la gente e l’accademia, che “gridi sui tetti” ciò che si sussurra in aule austere. E che, quando occorra, osi anche avanzare il sospetto che, in queste materie, non è tutto “scientifico“ quanto viene presentato per tale e che il Mistero deve continuare ad avere il suo spazio. Ridurre, come molti fanno, la Scrittura a un “oggetto di ricerca” da sezionare con gli stessi criteri (anzi, ancor più severi) che si usano per qualsiasi altro testo antico significa andare fuori strada”.

Il primo vivaio

Quel 1992 è un anno intenso: nell’autunno, esce anche un massiccio volume, rilegato, di quasi 700 pagine, con ben 289 capitoli: ciascuno di essi è una puntata di Vivaio, la rubrica che lo scrittore ha tenuto a partire dal 1987 sul quotidiano Avvenire, con una periodicità bi o addirittura, per qualche tempo, trisettimanale.
Vivaio nasce durante la direzione di Avvenire da parte di Guido Folloni. Per il titolo della rubrica, come dirà nella prima puntata, lo scrittore si è ispirato a Giovanni Papini che, verso la fine della vita, contava di riunire in un libro gli spunti, le idee, gli appunti per articoli e libri che non avrebbe più potuto sviluppare per mancanza di energie e di tempo. Dunque, Papini li avrebbe gettati su un terreno di carta, sperando che germogliassero.

Messori, in tanti anni di ricerca, aveva accumulato una serie impressionante (qualche decina di chili…) di note, di abbozzi, di ritagli, nati dalle sue riflessioni e dalle sue letture. Decise di utilizzarli almeno in parte per una rubrica, giornalistica sì ma con una sua tenuta, vista la prevista destinazione a un libro. L’idea, cioè, era di esaminare l’attualità per inquadrarla in una prospettiva di fede che la spiegasse, che le desse un senso. La sfida, dunque, di cercare di partire dalla cronaca per andare verso l’Eterno…. Dice: “Credo che la mancanza più drammatica di cui soffrono oggi i credenti sia la dimenticanza di quella che i tedeschi hanno chiamato (dedicandovi persino cattedre universitarie, la più prestigiosa delle quali tenuta da Romano Guardini) die katholische Weltanschauung, cioè una visione cattolica dell’uomo, del mondo, della storia. Se si perde questa prospettiva si finisce nelle banalità, così spesso ipocrite o anche soltanto superficiali e sciocche, del politicamente corretto, nell’adeguamento dei credenti al mondo. E questa è una perdita per tutti: è il “sale della Terra” che diventa insipido”.

Impaginata in un modo grigio, su due colonne, senza titolo se non quello della rubrica, relegata nelle pagine interne, spesso zeppa di refusi tipografici (un flagello attuale di certa stampa cattolica, un tempo esempio di rigore, almeno sul piano formale: don Bosco e don Alberione dicevano ai loro allievi tipografi che di un errore che gli sfuggisse dovevano accusarsi in confessione), Vivaio riuscì in realtà ad attirare l’attenzione appassionata di una folla di lettori, anche al di fuori di quelli abituali di Avvenire. In effetti, nei giorni della sua uscita il giornale aumentava in modo rilevante la tiratura. E quando, improvvisamente, cessò –nel 1992– la direzione cercò di tamponare la “falla” affidandosi al celebre giornalista e scrittore francese André Frossard: la cui rubrica, peraltro, sparì presto anche per ragioni di salute del titolare.

Nemico da sempre di ogni superficialità e approssimazione, Messori appoggiava ogni volta il suo discorso a una documentazione impressionante per vastità e solidissima sul piano storico: “Ho passato intere giornate, nella mia biblioteca o in quelle pubbliche, anche solo per verificare l’esattezza di una data, di un nome, di una notizia. Naturalmente, non c’è alcun merito in questo ma il riflesso condizionato della mia formazione nelle vecchie scuole del vecchio Piemonte, che mi porta a un orrore istintivo per ogni cialtroneria intellettuale; e poi, l’istinto di sopravvivenza: andavo a stuzzicare una cultura potente, spesso egemone, mostrandone i limiti, le faziosità, talvolta le manipolazioni. C’era da aspettarsi una reazione violenta, come difatti avvenne spesso. Dunque, occorreva prepararsi a rintuzzare la controffensiva scavando la trincea a regola d’arte. Faccio così anche per i miei libri: non metto note (i divulgatori come me non lo fanno, non possono farlo) ma conservo le schede con le indicazioni delle fonti su cui mi appoggio. Quando qualcuno cerca di smentirmi, ecco, sul giornale stesso che mi ha contestato, la mia replica con tutte le indicazioni bibliografiche, a livello universitario. E’ solo grazie a questo metodo che ho potuto sopravvivere per cinque anni con questo Vivaio, che quasi ad ogni puntata provocava un “digrignare di denti“ sia fuori che dentro la Chiesa. In effetti –come sempre mi è successo, anche con i libri– i nemici più acerrimi (talvolta, ahimè, più insidiosi e tenaci) erano in quel mondo cattolico che sembra essersi appiattito sulla vulgata dei miti e riti dell’attuale società liberal”.

Anche se moltissimi collezionavano la rubrica ritagliandola dal giornale, erano forti le pressioni perché il Vivaio fosse raccolto in libro. La richiesta è accolta da Messori con la pubblicazione (nell’autunno, dicevamo, del 1992) di un primo volume con il titolo Pensare la storia e il sottotitolo Una lettura cattolica dell’avventura umana.

’arcivescovo di Bologna, cardinal Giacomo Biffi ne firmava un‘ ampia, importante prefazione dove diceva, tra l’altro: “…mi auguro che questo libro diventi subito uno strumento indispensabile dell’odierna azione pastorale….per fortuna lo Spirito Santo non lascia mai senza intrinseca protezione la Sposa di Cristo (…) Il presente volume è appunto uno di questi provvidenziali rimedi ai nostri mali.” Aggiungendo, addirittura: “La sua comparsa è un segno che Dio non ha abbandonato il suo popolo”. Terminando così: “Messori è, ringraziando il Cielo, autore originale e personalissimo e non c’è obbligo di condividere tutte e singole le sue sempre geniali opinioni. Ma non possiamo non condividere tutti –e tutti apprezzare– il suo coraggioso servizio alla verità e il suo amore per la Chiesa”.

La quasi completa pubblicazione del materiale della fortunata rubrica proseguiva poi con altri due grossi volumi, edito anch’essi dalla San Paolo: nel 1993, La sfida della fede, nel 1995, Le cose della vita. Il primo di essi portava la prefazione del celebre sociologo belga Léo Moulin, dell’università d Bruxelles, che scriveva tra l’altro: “Messori è uno scrittore e un giornalista colto, coscienzioso, documentato, che parla soltanto di ciò che conosce: uno degli spiriti più liberi che io conosca, che si appoggia sempre su una documentazione impressionante… Sebbene agnostico, quale confermo di essere, condivido pienamente l’insieme delle tesi sostenute da Messori, per salvare valori che ci sono cari…”.

Nonostante la mole, e il relativo prezzo, i tre volumi erano letteralmente presi d’assalto in libreria dai lettori della rubrica, che si sentirono smarriti, se non “traditi“, quando Messori –per libera scelta, e non perché intimidito dall’ostilità di certi settori clericali o dall’aggressività di una certa cultura laica o neppure, come si disse, per decisione della direzione che, al contrario, protestò vivamente per la sospensione che danneggiava la tiratura– quando Messori, dunque, decideva di interromperla. Giungevano oltre seicento lettere di rammarico e talvolta di protesta allo scrittore che dice ora: “Ciò che volevo era proporre un metodo per porsi, cattolicamente, di fronte alla cronaca e alla storia. Volevo mostrare che il cristiano ha qualcosa di proprio da dire, in nome di quella verità che, sola, libera. Volevo gettare un sospetto documentato su tante accuse rivolte alla Chiesa e oggi, purtroppo, accettate da cattolici ignari, inquinati dalla propaganda del “mondo” sino al punto di chiedere scusa per i fratelli che li hanno preceduti. Volevo ricordare che nella nostra storia, la più longeva di qualunque altra istituzione, i conti tornano, l’attivo supera di gran lunga, malgrado tutto, il passivo: il quale, tra l’altro, a ben guardare spesso non è affatto tale, almeno in una prospettiva di fede. Per far questo, ho dato ai lettori quasi duemila pagine in tre grossi volumi. Dopo di che, mostrato con tanta abbondanza di esempi il punto di vista da cui porsi, toccava a loro continuare. Del resto, nulla su questa Terra è eterno, meno che mai una rubrica sui giornali. E poi, come ho spesso avvertito, non ho né autorità né missione per pormi come “maestro” di chicchessia. Ebbene, devo confessare che mi metteva sempre più a disagio un eccesso di consenso da parte di tanti, un entusiasmo ansioso, quasi ad aspettare da me la “linea”, l’imbeccata per sapere come pensarla. Come cattolico sono convinto che tale ruolo spetti solo al Magistero. E nulla mi è più estraneo che il trasformarmi in una sorta di guru che pontifica e guida. So a malapena guidare l’automobile: ci mancherebbe che volessi guidare degli uomini! E poi, per dirla chiara: perché dovrebbero sempre e solo trottare degli asini come me, quando le università, i seminari, gli istituti della Chiesa sono pieni di cavalli, spesso di razza? Perché non scendono in pista loro, loro che spesso si limitano a guardare con sospetto i “bracconieri” come me?”

Dai tre volumi originati da Vivaio (la San Paolo creò per essi una collana apposita) gli spagnoli trassero un’antologia, scegliendo soprattutto i brani che cercavano di fare verità proprio sulla storia di Spagna, così diffamata proprio perché così cattolica. Se citiamo quella traduzione è per una vicenda singolare che vi è legata. L’antologia, infatti, fu pubblicata da Planeta (il maggiore editore “laico” sia nella penisola che nell’America Latina) con il titolo Leyendas negras de la Iglesia. Il successo fu straordinario, tanto che per mesi il libro fu in testa alle classifiche. Tra i molti lettori, il re stesso di Spagna, Juan Carlos, favorevolmente colpito che uno straniero difendesse, dati alla mano, una storia gloriosa di cui, purtroppo, molti iberici stessi erano tentati di vergognarsi. Ma il “compiacimento reale” crebbe ancora, e di molto, quando, nel 1998, sempre presso Planeta, apparve El gran Milagro, traduzione de Il Miracolo di cui parleremo. A quel punto, Juan Carlos decise di firmare un decreto, apparso sulla gazzetta ufficiale dello Stato, con la quale conferiva a “don” Vittorio Messori la croce dell’Ordine di Isabella la Cattolica, il più prestigioso ordine cavalleresco di Spagna e che accoglie pochissimi stranieri particolarmente meritevoli verso la Hispanidad. Così, nel giorno di San Giovanni del 2000, presso lo storico palazzo dell’ambasciata presso la Santa Sede, nel corso del solenne ricevimento per l’onomastico del Re, l’ambasciatore decorava lo scrittore con la croce di Caballero per il suo impegno nella difesa della cultura iberica.

“In fondo, è stato punito il mio snobismo” dice Messori con autoironia “Pensavo che il massimo del kitsch fosse cercare o anche soltanto accettare onorificenze. Ovviamente, quella Croce non l’ho cercata ed è stata per me una sorpresa. Ma, contrariamente a quanto pensavo, l’ho accettata volentieri non solo perché viene da un Paese che, come cattolico, molto amo ma, soprattutto, perché porta il nome di quella grande regina di cui è stata sospesa la beatificazione (per la quale tutto è pronto da tempo e che meriterebbe in pieno) per l’opposizione tenace degli ebrei, dei musulmani, dei massoni. La grande Isabella è forse la più “politicamente scorretta” delle candidate agli altari, tanto è vero che, nella Chiesa stessa, non vogliono farvela salire: come non accettare, e con riconoscenza, l’Ordine cavalleresco a lei intitolato e di cui si sono fregiati tanti difensori dell’antica cristianità?”.

I segreti dell’ Obra

All’inizio del 1994, dopo la SEI e la San Paolo, Messori pubblica con la Mondadori, che da tempo lo corteggiava. Il suo primo libro presso la grande Casa di Segrate è Opus Dei: un’indagine. Incuriosito dalla “leggenda nera“ che aleggia attorno alla mitica Obra (non a caso, essa pure di origini spagnole), lo scrittore decise di vederci chiaro, di cercare di capire che cosa fosse davvero questa realtà religiosa di oggi, così importante e al contempo così misconosciuta. Dunque, si rifece cronista e per un anno indagò sul campo: su sua richiesta, l’Opera gli permise di accedere a tutta la documentazione che desiderava, girò per le residenze, andò a Pamplona tra gli studenti e i professori dell’università fondata dal beato Escrivà, interrogò amici e avversari, visse con i numerari e i sopranumerari stessi. Anche questo libro, in fondo, non era affatto un masso erratico, rientrava nel suo piano di lavoro: dopo avere cercato di capire come “funzionasse” il vangelo nelle persone concrete (il caso di Faà di Bruno), voleva ora vedere come “funzionasse” in un gruppo di uomini che si facevano comunità, istituzione. Anzi, prelatura, come in questo caso.

Il libro suscitò grande impressione e, naturalmente, grandi polemiche: anche, forse soprattutto, negli Stati Uniti dove la traduzione circolò a livello di massa, provocando un dibattito serrato sui grandi media. Precisa il Nostro: “Specialmente all’estero, quel libro –che pure non era affatto apologetico, ma il più possibile oggettivo– diffuse la convinzione che io fossi membro dell’Opus Dei. Se così fosse, lo avrei detto subito, chiaramente, sin dalla prima pagina, lieto e orgoglioso di esserlo. In realtà non è così. Lo stesso beato Escrivà de Balaguer, il fondatore, ammoniva spesso che per entrare nell’Opera, occorre una specifica vocazione. Vocazione che io –almeno sinora…- non ho avuto. Dunque, ho anche lì amici e lettori, che stimo ma che non sono miei “confratelli” nella stessa istituzione. Del resto, la stessa mancanza di specifica “vocazione “ l’ho constatata nei riguardi di ogni altra istituzione ecclesiale cattolica Sono lietissimo della varietà sempre rinnovata di carismi all’interno della Chiesa. Quanto a me, ho sempre sentito che ero chiamato a cercare di essere, se possibile, un accettabile cattolico all’interno della Grande Chiesa, senza appartenenze ulteriori e particolari”.

Un cattolico “anomalo”

In effetti, la sua situazione è singolare: da un lato tutta la sua produzione è una difesa della fede e della tradizione, nonché della storia, della Chiesa che la incarna. Dall’altro lato è il contrario di un timorato “cattolico di sagrestia”: anzi, in molte occasioni non esita a dire con chiarezza, non temendo di esser sgradevole, quanto in coscienza non gli sembra convincente nell’attuale pastorale della Chiesa. Come dimostrano non solo i suoi libri, ma anche i suoi articoli, soprattutto sul Corriere della sera: per quello che scrisse qui, in prima pagina, durante l’anno santo, si alienò molte simpatie di trionfalisti cattolici, convinti che Messori fosse un intollerabile guastafeste del compiacimento giubilare. E’ addirittura convinto che, essendo il clericalismo la patologia che sempre minaccia il cattolicesimo, una certa dose di “anticlericalismo” ben inteso –o, almeno, una sorveglianza attenta a questo proposito– sia non solo un diritto ma un dovere del credente. “Fossi vissuto nel Medio Evo” dice “non avrei avuto dubbi nella disputa tra guelfi e ghibellini. Sarei stato tra questi ultimi a fianco, nientemeno, di credenti della cui ortodossia non si può dubitare come Dante Alighieri: lui che non esita a mettere nell’inferno tanti prelati, un papa compreso… E proprio io, che cerco la giustizia storica per l’Inquisizione e che mi rifiuto di chiedere perdono per essa convinto che non ne abbia bisogno, al tempo del suo apogeo avrei avuto certamente dei problemi.

Almeno a qualche interrogatorio piuttosto inquietante sarei stato chiamato da quei tosti giudici: anche se credo che, dopo magari qualche tratto di corda, mi avrebbero rilasciato, al massimo con l’ammonizione a moderare la lingua. Ma, senza andare troppo lontano, nella stessa Chiesa del preconcilio avrei avuto i miei guai”.
Forse è anche per questa indipendenza di giudizio, unita alla consapevole e tenace fedeltà al Credo, che Giovanni Paolo II (che peraltro, come dicevamo, lo seguiva sin dal primo libro) lo volle come collaboratore in un iniziativa che, non a caso, è stata definita “storica “.

L’intervista

Come siano andate le cose, lo scrittore lo ha raccontato nella ventina di pagine di introduzione a Varcare la soglia della Speranza (un titolo proposto dal papa stesso). In quelle pagine, Messori ha confessato che l’improvvisa richiesta di condurre un’intervista tv, la prima della storia, a un pontefice (intervista da trasmettere su tutte le televisioni del mondo nell’ottobre del 1993, per i quindici anni di pontificato) se da un lato gli sembrava la realizzazione del sogno di ogni giornalista, dall’altro lato gli poneva degli interrogativi.

Come ha scritto: “Da cattolico, mi chiedevo se fosse davvero opportuno che il papa concedesse interviste, per giunta televisive. Non rischiava così (al di là di ogni sua generosa intenzione, ma venendo necessariamente coinvolto dal meccanismo implacabile del media-system) di confondere la sua voce nel caotico rumore di fondo di un mondo che tutto banalizza e spettacolarizza, che su tutto accumula opinioni contrastanti e chiacchiere inesauste? Era opportuno che anche un Supremo Pontefice Romano si adeguasse al “secondo me“ del colloquio con un cronista, abbandonando il solenne “Noi” in cui risuona la voce del mistero millenario della Chiesa?”.

Questa sua perplessità, da cattolico che parlava contro il suo stesso interesse professionale, la espresse, subito con chiarezza, a Giovanni Paolo II durante il pranzo a Castelgandolfo, dove erano presenti il regista Pupi Avati e il direttore della Rete 1 della Rai. “Qualcuno mi ha chiesto come si possa essere così schietti con un papa, quando si siede a tavola davanti a lui. Ma a me pare che solo un cosiddetto “laico” possa essere in soggezione di fronte a colui nel quale non vede che il maggiore personaggio religioso-politico del mondo. Per un cattolico, invece, è innanzitutto un padre: con lui, dunque, affetto filiale, massimo rispetto ma anche massima confidenza”.

Comunque, sia stato o no effetto delle osservazioni dell’intervistatore designato (che, tra l’altro, aveva fatto notare di non avere alcuna esperienza televisiva e che, dunque, era più opportuno rivolgersi ad altri), l’impegno era cancellato improvvisamente, la sera prima dell’inizio della registrazione. Il papa, però (come farà poi sapere a Messori, facendogli pervenire il suo testo) era rimasto colpito dalle domande del Nostro. Che dice: “Avevo preparato una trentina di punti, molto secchi e molto essenziali. Avevo un’occasione unica: potere interrogare il papa stesso su ciò che è il cuore della mia ricerca. Dunque: Dio, Cristo, la Chiesa, la possibilità stessa di credere, il rapporto con le altre religioni, l’avvenire del vangelo. Ho pertanto scartato subito le domande sull’etica, sulla politica, sulla società ; le domande, insomma, da “vaticanista”, con tutto il rispetto per chi gestisce questo tipo di informazione. Matrimonio dei preti o degli omosessuali, sacerdozio alla donne, preservativi, impegno politico dei cattolici, riorganizzazione della Curia ecc. ecc.: questioni importanti, magari, ma subordinate alla domanda essenziale. Quella della verità del cristianesimo; e del cattolicesimo in particolare. In effetti, la prima domanda che ho proposto è la constatazione che la persona che mi trovavo di fronte è, innanzitutto, un mistero sul quale bisogna “scommettere”: o un rappresentante di Dio nel mondo o il gestore di un’illusione millenaria. Da qui, quanto gli chiedevo: “Non ha mai esitato nella sua certezza di avere, proprio Lei, come Successore di Pietro, un legame con Gesù e, dunque, con Dio? Mai si è posto domande e problemi sulla verità di quel Credo di cui è il garante più alto?“. In un pezzo in prima pagina, il New York Times strabiliava: “Mai si è visto qualcuno che, come mister Messori, chiede a un papa se ci crede davvero“. Ma il punto da cui iniziare era proprio lì, alla radice, nelle fondamenta. Le altre domande erano in questa linea”.

Una linea che, in ogni caso, colpì molto Giovanni Paolo II, probabilmente anche negli aspetti che apparvero un po’ irriverenti ai timorati. In effetti, anche i suoi collaboratori più stretti erano convinti che non si sarebbe più parlato di intervista, dopo l’abbandono del progetto televisivo. E, invece, il papa tenne nel cassetto della sua scrivania il fax con le brevi domande di Messori (“Mi vergogno ancora un poco: le avevo buttate giù con la macchina da scrivere, correggendole poi con un pennarello, senza ribattere”) e alla sera, prima di chiudere la sua intensa giornata, rispondeva a mano, in polacco. Alla fine, a sorpresa, convocò il portavoce e gli disse di recapitare al giornalista le sue risposte ai quesiti..

Affidandosi anche alla maggiore agenzia editoriale del mondo, a New York, la Mondadori organizzò un’inedita operazione: la comparsa in contemporanea del libro in una cinquantina di lingue. Soltanto in Italia, Varcare la soglia della Speranza superò, in due mesi, il milione e mezzo di copie vendute. In questo modo, nell’elenco dei dieci libri più venduti nel Novecento italiano, appare il primo libro di Messori, Ipotesi su Gesù e questo in cui, oltre la domande, ha fatto un accurato e lungo editing oltre che il saggio introduttivo. Dunque, la presenza di Messori ha il primato di due presenze in questa classifica.

Il libro con Giovanni Paolo II e, in generale, il suo lavoro di saggista sono stati fatti oggetto del Premio Nazionale al Merito della Cultura Cattolica proprio per l’anno 1994, la cui motivazione trovate a questo indirizzo.

Dice lo scrittore: “Prevedendo quel che sarebbe successo, mi organizzai per sparire dalla circolazione subito dopo la presentazione ufficiale del libro, a Milano, con centinaia di giornalisti di tutto il mondo. Sia allora che in seguito rifiutai interviste e presentazioni ( la Mondadori me ne volle per avere detto tenacemente di no a “comparsate” televisive che potevano dare ulteriori colpi di volano a una ruota già gigantesca ma mi esponevano alla figura di farmi bello sulle spalle di Giovanni Paolo II..). Anzi, prenotai con largo anticipo un viaggio a Fatima non solo come pellegrino ma anche come studioso, volendo continuare sul posto certe ricerche su quel santuario. Così, in quell’ottobre del 1994, due giorni dopo il lancio mondiale, mentre le prime copie arrivavano in libreria, salivo sull’aereo per il Portogallo, senza telefono cellulare e senza lasciare recapito, e rientravo un paio di settimane dopo, quando la febbre dell’evento stava ormai sbollendo”. I molti miliardi di diritti di autore (le copie diffuse nel mondo sono certamente superiori ai venti milioni) erano utilizzati dal papa per la sua carità, in particolare per costruire scuole nella ex-Jugoslavia devastata dalla guerra civile.

L’anno dopo , dunque nel 1995, esce (come dicevamo) il terzo volume della collana Vivaio, Le cose della vita. A differenza dei due che l’hanno preceduto, al materiale della rubrica di Avvenire aggiunge anche una decina di lunghi articoli o di brevi saggi apparsi su altri giornali e riviste.

Nel 1997 è ancora la volta della Mondadori, con Qualche ragione per credere.

Ritorno all’apologetica

Finora, Messori aveva pubblicato sue interviste ad altri. Questa volta è invece lui l’intervistato, dal collega del Corriere della Sera Michele Brambilla. La formula della domanda e risposta nasce dall’origine del libro, progettato come una serie di dialoghi da pubblicare sull’inserto settimanale del Corsera, Sette. I due volevano proporre una sorta di catechismo per lettori la cui ignoranza religiosa (anche per colpa di una certa pastorale) è spesso quasi totale. Per varie ragioni quel progetto non si realizzò ma Messori e Brambilla decisero egualmente di sedersi per qualche domenica attorno a un registratore, nella casa di Desenzano. “L’intenzione era di interrogarci sui tre “cerchi” dell’apologetica classica: prima Dio, poi Cristo e infine la Chiesa. Ma ci rendemmo presto conto che, per non superare certe dimensioni, avremmo dovuto limitarci al primo “girone”, annunciando al lettore che avremmo proseguito con un altro libro o magari con due. In effetti, buona parte del materiale per questa continuazione esiste già e necessiterebbe solo di essere messo in ordine per la pubblicazione. Ma è un lavoro che, credo, non farò perché mi sono reso conto che, su Cristo, non facevo altro che riassumere quanto ho già scritto in tre libri su di Lui. E, quanto alla Chiesa, molto materiale per cercare di capirne l’essenza e la storia sta in altri tre volumi, quelli di Vivaio. Poiché nulla mi annoia quanto tornare sul già detto, pur con delusione di certi lettori, credo che Qualche ragione per credere resterà il solo della serie programmata”.

In effetti, in questo volume stanno gli interrogativi su Dio e la Sua esistenza che Messori non aveva ancora esplicitato, essendosi sin ad allora concentrato su Gesù e il Suo Dio “anomalo” “. Dice: “Sono stato segnato dal grido di Pascal nel Memoriale, gli appunti presi nella sua “notte di fuoco”, quella della definitiva conversione che cominciano con il celebre: “Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, non dei filosofi e degli scienziati!” Dunque, la mia riflessione andava da Gesù verso Dio, non viceversa, come di solito avviene. Nei seminari, ad esempio, la filosofia precede la teologia e questa la cristologia. Come riconosco anche nella postfazione che ho aggiunto a Ipotesi su Gesù nel 2000, la posizione di Pascal è comprensibile in un convertito (e anch’io lo sono) ma è parziale: senza chiarire prima il discorso su Dio, quello su Cristo rischia di essere deformato. Con Qualche ragione per credere ho cercato di colmare la lacuna”. Come al solito, il libro era tradotto nelle principali lingue e suscitava dibattito, circolando a livello di best seller, soprattutto in Germania e in Francia.

A Calanda

Nell’autunno dell’anno dopo, lo scrittore pubblicava il suo primo libro con le edizioni Rizzoli. Qui, presenta Il Miracolo. Dice Messori: “Sono partito dalla celebre frase di Emile Zola davanti alla grotta di Lourdes: “Vedo molti bastoni e molte stampelle, ma non vedo alcuna gamba di legno”. Davvero, mi sono chiesto, vi è mai stato un miracolo inconfutabile come quello della riapparizione di un arto amputato? Anche qui, pascalianamente, ero convinto che un simile prodigio non fosse nello stile di un Dio che ama il chiaroscuro, che non vuole metterci con le spalle al muro davanti all’evidenza. Dunque, ero convinto che il Creatore, ovviamente, potesse ma che non volesse un simile segno che violenterebbe la nostra libertà di accettarLo o di rifiutarLo. Quando sono venuto a sapere che un caso del genere (una gamba riapparsa oltre due anni dopo l’amputazione) si sarebbe verificato a Calanda, villaggio di Aragona, nel 1640, per intercessione della Virgen del Pilar venerata a Saragozza, ho subito pensato che si trattasse di una pia tradizione, priva di riscontri storici, come nel caso di sant’Antonio da Padova e dei santi Cosma e Damiano. Studiando però il caso sui pochi libri che vi sono dedicati sono rimasto impressionato: così, sono andato in Aragona (vi sono poi ritornato molte volte), ho esaminato la documentazione, fatto sopralluoghi, parlato con gli storici locali. Alla fine, dopo avere esaminato tutte le ipotesi alternative, mi sono arreso: ho allargato le braccia e congedato i miei schemi (peraltro validi, ma salvo eccezioni come questa…) sul Deus absconditus.. La cosa più ragionevole, di fronte a una documentazione così schiacciante, era accettare il mistero”.

Con oltre 40.000 copie vendute in Italia nei primi mesi (e con le traduzioni che ne sono seguite) Il Miracolo ha, in qualche modo, creato un nuovo pellegrinaggio : sono molti coloro che, con il libro in mano, si sono spinti e si spingono sino alla remota Calanda, centro sino ad ora di una devozione solo regionale. Mentre, come dicevamo, il Re di Spagna decorava Messori con l’Ordine di Isabella la Cattolica, i contadini del villaggio aragonese lo nominavano Mayoral de Honor del santuario costruito sul luogo del prodigio. “E’ il riconoscimento di cui vado più fiero, perché non ha alcun valore per il mondo ma lo ha grande per me, venendomi da quel popolo della Spagna profonda che, malgrado tutto, è ancora tenacemente legato a quella sua fede cattolica che ha portato in tutto il mondo. Convinto, come sono, che il Signore mi farà la grazie di morire prima di mia moglie, ho chiesto a Rosanna di mettermi al collo, nella bara, quel medaglione un po’ rustico, consegnatomi nella Calanda in festa nel suo “giorno del Milagro”, quando si apre l’arena e anche i toreri combattono in onore di Maria. Spero che il medaglione sia un buon passe-partout se, com’è purtroppo probabile, avrò qualche guaio con il Giusto Giudice”.

Lourdes e dintorni

A proposito di temi mariani: la vigilia di Natale del 1996, in prima serata, andava in onda su Rai 3 il documentario Aquerò, su Lourdes e, soprattutto, su Bernadette Soubirous, di cui Messori era autore, con il regista Vittorio Nevano. Giudicando alta la qualità del film, la Rai presentava Aquerò come suo concorrente al Premio Italia dedicato alle trasmissioni televisive di tutto il mondo. Nel Natale dell’anno successivo, sempre Rai 3 trasmetteva Miriam, un breve film scritto dal Nostro, una sorta di “intervista alla Madonna”. Nel 1999 era la volta de Il Miracolo, ricostruzione girata sui luoghi del prodigio cui è dedicato il libro omonimo.

Sempre a proposito di carismi mariani: Messori, nel 1998, faceva tradurre dalla Mondadori il libro Lourdes:cronaca di un mistero in cui il celebre specialista René Laurentin sintetizzava decenni di ricerca storica su quelle apparizioni. Al libro, il nostro apponeva una lunga prefazione, quasi un piccolo saggio (al titolo Quella grotta sul fiume) dedicato soprattutto a quella piccola-grande Bernadette che molto ama e la cui ricorrenza festeggia ogni anno in concomitanza con il suo compleanno..
Verso la fine dell’Anno Giubilare, nell’autunno del 2000, ecco finalmente il libro sulla Risurrezione. Dicono che è risorto è stampato ancora dalla SEI, poiché fa parte di una trilogia con le Ipotesi e Patì sotto Ponzio Pilato, stampati dalle editrice salesiana. Pochi libri erano così attesi. Nel capitolo introduttivo, l’autore spiega i motivi del ritardo che gli aveva provocato i solleciti di una folla di lettori. Questi non restavano delusi, come mostrano i dati sulla diffusione. Metodo e linguaggio sono gli stessi di Patì, come ovvio, dato che i due libri sono stati anticipati in prima stesura sulle pagine di Jesus nel ciclo intitolato Il caso Cristo.